Ortona, Giorgio. – Artista (n. Tripoli 1960). Si è laureato in architettura all’Università di Roma e ha poi seguito un corso internazionale di pittura a Cadice sotto la direzione del suo maestro A. López García. Pittore figurativo e realista con una «evidente aspirazione all’astrazione», dipinge paesaggi urbani – vedute desolate di palazzine periferiche romane prive in sé di qualsiasi bellezza, scorci di città siciliane –, ritratti di composte figure umane, nature morte, il cui tratto poetico principale è l’incompiutezza: si tratta di opere che sembrano «sul punto di disfarsi», per es. lasciando ampie zone indefinite di colore (gialli, bianchi, grigi) che contrastano l’iperrealismo dell’immagine, e che non vogliono riprodurre la realtà ma «esprimere una dimensione interiore» (V. Sgarbi, Giorgio Ortona. I corpi, le nature morte, le costruzioni, 2010), per es. quella della vita che si intuisce dietro le facciate delle brutte palazzine lasciate in eredità dai palazzinari romani degli anni Cinquanta e Sessanta. Tra le sue opere: la serie di ritratti in olio su tavola di Padre (2002-03) e di Sidney (2009-10); la serie di nature morte in olio su tela Sacchi (1994-2012); e i paesaggi, sempre in olio, Cantiere Pantanella (1999; collez. MACRO), La tangenziale (2001), Edificio messinese (2007), Appio Latino (2010), la serie Le palazzine di Roma (2010-11), Centocelle (2011). Nel 2011 ha partecipato alla 54a Biennale di Venezia.
Antonio Lopez Garcia:
Guardando i tuoi lavori, noto che alcuni sono sicuramente più
spettacolari, come ad esempio il quadro Sacco, ma in altri c’è una
sensibilità nascosta, non plateale, una verità dello sguardo che viene poi
elaborata attraverso la pittura. Questa sensibilità la ritrovo in
Costruzione romana. In questo piccolo quadro di paesaggio mi sembra di
vedere un linguaggio della pittura molto morandiano, sensibile, delicato e
sostanzioso. Anche se il tutto non è definito nei dettagli, sei riuscito a
costruire la percezione della profondità, soprattutto nel cielo e nelle
parti più lontane. Quei toni scuri in primo piano, certi accenni di verde
prato, l’accordo di quei gialli accesi con tutte quelle tonalità luminose,
non so bene cosa rappresentino, ma non importa, suggeriscono la natura, la
distanza, tutta la distanza in cui è situato questo paesaggio in relazione
a te.Certo, il Sacco è un quadro brillante, è una natura morta inscritta
dentro la formula di certa pittura realista contemporanea, una pittura
accattivante, graffiante e d’effetto, e in questo senso maliziosa, ma in
Costruzione romana vedo più ossigeno, ovviamente non nel senso letterale
del termine, quindi non ossigeno fisico, ma ossigeno etico ed estetico, e
questo a me piace molto.
Giorgio Ortona:
E’ vero, sono due quadri diversi. Nella natura morta c’è forse il
desiderio di vedere fino a che punto attraverso la tecnica, sia possibile
esprimersi. E’ un tentativo di ricerca orientato sul fatto se debba essere
la tecnica a sostenere il tuo pensiero o viceversa. E’ un tentativo
parallelo a quello dei pittori iperrealisti, dove la tecnica diventa
linguaggio. A dimostrazione di ciò, è chiaramente riconoscibile, a
prescindere dall’iconografia, la differenza tra un John Salt e un Richard
Estes, tra un Robert Betchtle e un Ben Schonzeit.
ALG:
Sì, e questo risulta evidente osservando la tua serie dei sacchi. Ad
esempio, il Sacco che tu hai rappresentato attraverso una forma molto
cruda e fortemente figurativa, diventa per eccesso una forma molto
astratta. E’ la stessa ostentazione di conoscenza e di voler dimostrare
che caratterizza l’iperrealismo.Trovo molto interessante Roma Pantanella.
E’ olio?
GO:
Olio, olio, tutto olio. Lavoro prima a matita fino ad un punto tale per
cui il lavoro potrebbe non avere necessariamente il bisogno dell’elemento
colore. Ma, se intendo cromatizzare, la tecnica che adopero è
esclusivamente colore ad olio. In un’opera, inizio comunque e sempre a
lavorare a matita, decidendo sempre alla fine se usare il colore o meno.
Questa incertezza è sempre una mia costante.
ALG:
Lo trovo molto interessante. Credo che hai molta sensibilità per il
paesaggio, proprio per temperamento, ossia, sai esprimere molto bene le
distanze, e sai esprimere anche molto bene la luce in generale. Hai molta
predisposizione per la luce così come la aveva Morandi, e questo è un
terreno nel quale puoi entrare in maniera naturale ed esprimerla in forma
molto fluida. Roma Pantanella, è un quadro molto moderno, e non solo, ma
anche molto libero. Mi piace molto, davvero, come hai sintetizzato tutto
questo; e questa è una cosa estremamente difficile. In questo quadro c’è
un mondo infinito di dettagli e di forme che tu hai saputo, in modo
istintivo, e con relativamente pochi elementi, posizionare in tutta la sua
complessità. E sono convinto che per fare questo, si debba aver bisogno di
una predisposizione naturale molto forte. Si ha la sensazione, inoltre,
che il tuo sguardo su questo quadro sia più indipendente da tutto quello
che è la routine della pittura. Qui ti trovo più libero.Vedo in te una
grande passione per il paesaggio: vedo che qui c’è più ambizione come
pittore. Qui c’è uno sguardo che non cerca niente; uno sguardo che non
ambisce a niente; a me questa libertà piace molto sia in questo che
nell’altro piccolo paesaggio. E’ qualcosa che capita a Morandi. Morandi
non cerca di convincerti di niente, perché il suo guardare è un essere
completamente assorbito nelle cose. Lui è così assorto nella
contemplazione, che ciò lo aiuta a dipingere, a dipingere senza aver
bisogno di usare nessun tipo di elemento spurio o bugiardo.
GO:
Credo che un buon pittore, prima di preoccuparsi di realizzare un buon
quadro, debba cercare di evitare di eseguire un lavoro privo di pensiero,
un lavoro fatto con casualità e tanto per essere fatto. Saremmo già sulla
strada giusta se cominciassimo ad inquinare di meno. Forse oggi ci si
accorge molto meno di un’opera di grande valore rispetto al caos che ci
assedia, alla congerie di cose senza senso e valore estetico. Il brutto
sovrasta il bello. L’abusivismo edilizio, ad esempio, che oramai da
decenni ci sommerge, riesce ad essere più potente e dare sensazioni più
forti condizionandoci maggiormente rispetto ad un qualsiasi vecchio centro
storico. Certo il nostro compito è anche quello di fare i conti con questo
degrado e cercare attraverso l’estetica di ridargli un senso, un ordine, e
un significato.
ALG:
Per me, nei sacchi, si incontra l’evidenza del topico, del convenzionale.
Roma Pantanella invece mi sembra una rappresentazione autentica, che sta
nel futuro di certa pittura; questo si allaccia a cose di molto prestigio,
a Corot, a Morandi, a certa pittura metafisica. Vedo che le cose di questo
paesaggio le fai molto bene; le senti molto; senti molto bene le cose
distanti sommerse nella luce. Qui percepisci tutto il paesaggio… e molto
profondamente. Mi convinco ancor di più di questa grande sensibilità
pittorica guardando Roma. Vedo qui una pittura straordinaria, davvero! Sì,
straordinaria perché autentica e originale, molto colta, e così colta che
non si nota, così come dovrebbe essere, senza presunzione e senza
ostentazione.
GO:
Grazie. Nel suo metodo di lavoro, soprattutto per le grandi periferie,
include dei bozzetti preparatori?
ALG:
No, il mio bozzetto è la realtà, è ciò che ho di fronte.Il paesaggio si
presta come qualsiasi altra cosa a tanti tipi di disaccordi, così come
capita nei rapporti umani. Lo senti così tanto da identificarti con esso
in maniera biologica. Ne sei così vicino, da trovare istintivamente una
maniera pittorica più pulita per rappresentarlo. Il paesaggio si può fare
in molte forme, in una forma anche volgare, oltre che banale, angusta e
falsa. La pittura contemporanea è piena di questo tipo di
rappresentazioni, assolutamente bugiarde, ma tu, identificandoti
biologicamente con esso, ti salvi da tutti i rischi e da tutti i pericoli.
GO:
Nel momento in cui lavoro, non faccio assolutamente differenza tra
un’architettura, una natura morta o un corpo umano. Concepisco tutti
questi elementi senza considerare che hanno ovviamente caratteristiche
differenti e proprie. E’ quasi indifferente il soggetto, che a me colpisce
esclusivamente per la sua forma e per il colore, ma anche per il suo
posizionamento nello spazio. Ad esempio il quadro Antonio lo ho pensato
come oggetto e non come essere umano.
ALG:
Però Roma non è un oggetto. In questo ritratto hai manipolato la
composizione, hai elaborato tutto, e hai detto all’uomo come disporsi; nel
paesaggio invece non hai manipolato niente, e questo a mio giudizio ti ha
salvato da un certo tipo di formula. In Lucia eri più interessato alla
persona piuttosto che ad elaborare la superficie del quadro, mentre in
Antonio ti ha interessato tanto il personaggio quanto il quadro dove trovo
una sorta di speculazione plastica, che mi sembra vada contro la
rappresentazione del personaggio, cioè quella che io sono solito chiamare
malizia. Morandi non aveva nessuna malizia; Sironi aveva molta malizia.
Per questo Morandi è sicuramente più grande.
GO:
Forse uno degli aspetti del forte consenso suscitato da Sironi può essere
nella scelta delle tematiche: periferie, oggetti di città, tram, e via
discorrendo, e questa iconografia è risultata sicuramente molto attraente,
e per certi versi anche più fruibile. Capisco che si dovrebbe cercare di
sorprendere e stupire chi osserva un quadro con qualcosa di più intrinseco
e nascosto. Ma ciò è sicuramente arduo. Credo che la soluzione per poter
mettere più verità possibile in quello che si fa, sia quella di non
pensare mai alla riuscita di un lavoro e quindi a come potrà essere
recepito, ma lavorare solamente pensando che il quadro al quale stai
lavorando non sarà mai visto da nessuno. Le cose meno accese a volte,
possono essere molto più potenti. Si potrebbe dire che Sironi fa una
pittura per gli altri e Morandi la fa per se stesso. Ma avere questa
grande capacità di esteriorizzare la propria intimità, è sicuramente
prerogativa di pochissimi.
ALG:
Sironi cerca di conquistarti, Morandi invece non lo cerca affatto. Non
abusa mai di te; ti lascia libero; non cerca di persuaderti. Non cerca di
attrarti. Anche tu lasci qui lo spettatore più libero, proprio perché tu
stesso sei stato più libero nel guardare ciò che avevi davanti. Mi sembra
che questo non lo possa fare chiunque; ha un suo livello. Credo che il
punto di partenza dal quale tu inizi a lavorare ad un paesaggio sia il
modo in cui ti poni con ciò che ti circonda. Voglio dire il modo profondo
in cui senti le cose intorno, e questo è quello che sempre salva
l’artista. Velazquez, quando ha di fronte una persona, un uomo o una
donna, lavora sul suo terreno; quando deve invece dipingere la Vergine, il
povero Velasquez non è nel suo territorio, è fuori del suo terreno, anche
se lo fa molto bene perché Velasquez lo fa sempre molto bene, ma ogni
artista ha un suo spazio, e lui stesso può non conoscere bene i propri
limiti, ma con il tempo gli altri riescono a comprenderlo. Così, nel mondo
contemporaneo capita esattamente alla stessa maniera. Io noto che tu sei
istintivamente più vicino ad entrare in sintonia con il paesaggio; questo
ti fa trovare un linguaggio pittorico più pulito e puro. In questo quadro,
Roma Pantanella, che a me pare molto riuscito e sommamente colto, si nota
l’Italia, e tutta la tradizione pittorica; in una forma molto semplice,
viene espresso tutto quello che è suggerito dalla grande pittura che ci ha
preceduto, Corot ad esempio. Io qui vedo Corot.
GO:
Ma è positivo vedere Corot in un altro pittore? Anche se ovviamente il
confronto mi lusinga.
ALG:
Sì, se in maniera indiretta. Se è per pura coincidenza, o per una
similitudine di vedute. Se prendi Corot, e cominci a copiare, ovviamente
no. Qui, quello che vedo, è un’anima gemella. Corot ha avuto uno sguardo
meraviglioso, molto pulito, invaso d’amore per quello che vedeva; questo è
stato Corot. Questo è il motivo per cui arriva ad una sintesi pittorica
così vera, per questo è Corot. Corot si metteva davanti a un paesaggio,
davanti a un cielo, a una collina, a un albero, oppure davanti a delle
ombre, e rimaneva assolutamente incantato; e questo incantamento lo
trasformava in pittura. Questo capita poche volte e qui c’è qualcosa di
questo, è uno sguardo simile, perciò è corottiano.Sacco invece non è
corottiano; ricorda Andrew Wyeth. Preferisco Corot a Wyeth perché è
europeo, e con lui ritrovo un tipo di linguaggio comune. Ciò non toglie
che lo spirito Wyeth è valido perché sente e rappresenta molto bene lo
spirito americano: è il Corot d’America.Credo che essendo americano, in
quel contesto lo si debba giudicare positivamente; rappresenta il suo
mondo, spesso quello rurale, qualcosa che capita solo là, e che a noi non
appartiene, ha la maniera di dipingerlo che gli corrisponde. Ma impiegare
la formula pittorica Wyeth per noi è sicuramente artificioso. La formula
Wyeth corrisponde alla sua storia, e va unita alle proprie storie; non si
può scindere dal proprio contesto. Guardando ora Piazza ad Jerez de la
Frontera posso dirti che lo trovo un buon lavoro e ben strutturato. Hai
scelto un luogo di una città a te sconosciuta, che sei riuscito a
riportare sul tuo terreno, attraverso la luce e la posizione degli
elementi. Il fatto che tu non sei spagnolo, e che ti trovi in un luogo che
non è il tuo, e che quindi ti costringe a lavorare in maniera scomoda, può
essere molto stimolante. Ti costringe a stabilire una lotta nobile perché
devi ricorrere ad aspetti della tua personalità, sconosciuti, nuovi e
inediti. Ho sperimentato questo nel film di Victor Erice, un grandissimo
regista, abituato a lavorare sempre su sceneggiature, personaggi e
contesti enormemente affini alla sua personalità. Quando girò il film El
sol del membrillo, fu costretto a misurarsi con cose molto lontane dal suo
mondo, e per poter realizzare il film, ha dovuto fare uno sforzo enorme e
sviluppare risorse nascoste della sua personalità, che lui sicuramente
aveva, ma che teneva come muscoli atrofizzati, e questo è assolutamente
straordinario. Ti apri ad altre cose. Si tratta di un tipo di artista che
si mette continuamente in gioco e ama sperimentare. Al contrario
Hitchcock, regista che invece amava realizzare ogni suo film con tutti
quegli elementi circoscritti ad un mondo a lui familiare. Vedo nel tuo
quadro una luce chiara, un ordine, un’armonia, e una novità nella forma di
collocare le cose, che mi sembra molto interessante, e questo devo dirti
che non è sicuramente malizioso!
GO:
Grazie!
Nel settembre del 1997, a Jerez de la Frontera, Antonio Lopez Garcia, uno dei primi artisti viventi, conversa amabilmente con Giorgio Ortona, romano come Schifano (entrambi sono nati in Libia), ma con una formazione artistica legata alla Spagna di Lopez. Fra i due, molti centimetri di differenza (Ortona è alto e smilzo), ma una sola generazione a dividerli, anche se a guardarli sembrerebbe di più. Non è Lopez Garcia a sfigurare, porta con dignità i suoi anni; è Ortona eterno ragazzo, a farlo apparire più anziano di quello che é. Ortona è una di quelle persone, di nuovo stampo, pressoché sconosciute in passato, che ci si ostina a definire giovane, perfino ragazzo, anche quando superano il mezzo secolo di vita; certamente per merito della presenza fisica, del modo di porsi, dei gusti e delle abitudini di vita, rimasti piuttosto stabili nel corso del tempo, ma anche perché a vederti in un certo modo o sono gli anziani, spaventosamente dominanti in Italia, oppure veri ragazzi, per i quali deve risultare consolante che un uomo maturo abbia un aspetto simile al loro. Chiusa parentesi, torniamo alla conversazione con Lopez Garcia. A un certo punto, il maestro spagnolo dice a Ortona che in una sua opera, Costruzione romana, sente la presenza dell’ossigeno. Metaforico, precisa subito Lopez, “etico ed estetico”. Ma Lopez è persona troppo attenta al peso delle parole perché quell’ossigeno mentale, nel senso dell’ampiezza di respiro, non abbia anche una corrispondenza visiva nelle opere di Ortona. A guardare Costruzione romana, come altri paesaggi della periferia romana, tipici di Ortona, in cui le palazzine di cemento armato offendono, ma non riescono a zittire la campagna circostante, quell’ossigeno lo vediamo anche noi, chiaro, puro, disintossicante. Non é un elemento accessorio, ma strutturale della figurazione: senza di esso, l’immagine, caratterizzata da una grande precisione nella resa delle simmetrie e delle somiglianze, ma secondo una sintesi “all’italiana” che condivide solo in parte la ossessione per il dettaglio di Lopez Garcia, avrebbe tutto un altro senso, sicuramente più prevedibile, convenzionale. E invece va a scombinare le carte, conferendo ariosità e leggerezza a un ambiente suburbano che dovremmo immaginare in maniera opposta, cupo, greve. Ortona vuole forse riabilitare la volgarità edilizia dei “palazzinari”, mettere fiori nei cannoni del generone “calce e mattone”, ieri padrone di Roma, oggi di mezza Italia? Per niente: è laureato in architettura, sa giudicare bene quello che vede, i palazzinari sono anche per lui squallidi speculatori, saccheggiatori del territorio. Sono molti gli architetti di formazione, in pittura e in fotografia, che hanno dato vita, negli ultimi tempi, al cosiddetto nuovo paesaggio italiano, rappresentando scenari suggestivi, ma agghiaccianti, di città seriali, vuote e silenziose, spietatamente geometriche. Anche nelle palazzine di Ortona, la cui funzione, similmente agli apparecchi ortopedici, sembra essere quella di imporre ai loro abitanti una forma prestabilita, la mediocrità, l’omologazione, domina il filo a piombo e la squadra, ovvero la standardizzazione forzata. Eppure, in esse, a differenza di quelle prima evocate, arriva la luce del sole, che disegna ombre nette, inderogabili. E con la luce, arriva anche l’aria, tersa, satura di colore, ma frizzante e ossigenata come lo è solo di rado in quelle periferie, aria che penetra nei muri e pare disinfettarli. E con l’aria ossigenata, ecco la vita, sua diretta conseguenza; in ognuna di quelle palazzine anonime e insulse, in ognuno di quei quartieri-dormitorio, si ritrova un’umanità autentica che palpita, giorno per giorno, anno per anno, esistenza per esistenza. Un’umanità accomunabile, figlia di un unico Dio, ma mai uguale a sé stessa, sempre interessante nelle sue varie espressione individuali, con storie tutte diverse l’una dall’altra; un’umanità che non ha bisogno di atteggiamenti paternalistici, di carità pietose e occasionali da parte di intellighenzie che hanno lo sguardo rivolto altrove, ma solo di essere rispettata per quello che è, niente di più, niente di meno. La si voleva annichilire, e invece emerge, seppure invisibile, finendo per attribuire un’anima a quelle architetture che ne erano prive, un cuore pulsante a quell’urbanistica così inurbana, e le rende meno opprimenti, perfino gradevoli, in certe circostanze. Miracolo a Roma, il ragazzo della Via Gluck - Milano, in quella bella parabola della nostra preistoria ambientalista, apprezzata anche da Pasolini, è un luogo comune inevitabile - ha trovato finalmente riscatto: è vero, là dove c’era l’erba, ora, c’è una città, ma l’umanità dei suoi abitanti è rimasta a misura dei prati perduti. E’ questa la verdad, esattamente come la intende Lopez Garcia, l’essere cosa vera in un mondo vivo, ed essere partecipi, come artisti, di questa condizione, aderendo perfettamente, grazie al magistero tecnico, a ciò che si rappresenta, fino ad annullarsi. La verdad di Ortona - spagnola e internazionale quanto si vuole, anche per via americana, ma capace di stabilire un’evidente continuità di ricerca con un precedente artistico locale, la Scuola di Portonaccio - ci fa capire che il brutto delle periferie romane può contenere l’umanamente bello. Non è rivelazione da poco per chi ha sostenuto l’abbattimento di un orrore come Corviale, sorprendendosi, poi, nel constatare quanto gli abitanti si fossero affezionati a quel serpentone mostruoso, come a un padre crudele, tetro e invadente, con cui, comunque, nel bene e nel male, si era divisa la vita. Umanità nascosta dietro le pareti di un condominio, abbiamo detto, ma anche protagonista assoluta, nelle opere di Ortona, ora in dialogo aperto con le architetture che la contengono, ora isolata nello stabilire un rapporto diretto col proprio aspetto fisico, la propria divisa d’ordinanza, quasi a fare, come in certa Pop Art inglese, precedente o contemporanea al boom warholiano, da insegna di sé stessa. Spesso e volentieri, come anche in alcune vedute urbane, romane e no, Ortona lascia aloni di incompiutezza in queste immagini, come sei i suoi disegni colorati fossero puzzle non portati a termine; espediente, questo, di notevole efficacia espressiva, che, se da una parte diminuisce la meticolosa riconoscibilità di ciò che viene rappresentato, dall’altra aumenta l’incidenza del fattore umano e psicologico, come se fra l’artista e il mondo con cui si confronta esistesse sempre un margine fisiologico, tale da consentire solo una comprensione frammentata, non integrale, ma anche con molti vuoti. L’incompiutezza è cosa diversa dal “non-finito”. Ortona mi perdonerà se ricorro di nuovo a Antonio Lopez Garcia per spìegare anche questa componente della sua arte, quasi che voglia sottintenderne la scarsa originalità rispetto al Grande de España, cosa che non penso assolutamente, come credo di avere già affermato. Certi suoi effetti d’incompiutezza, per esempio, mi ricordano ancora Roma, quella più “americana”, almeno per quanto concerne la figurazione, degli “sgocciolati” nelle insegne pubblicitarie di Schifano, trait-d’union con un altro artista particolarmente attento al cambiamento dell’immaginario urbano nella Capitale di quegli anni, Piero Guccione, non certo estraneo alla genealogia ideale di Ortona. Ma torniamo all’incompiutezza di Lopez Garcia. Ortona conosce certamente Il sole della mela cotogna, il film-documentario di Victor Erice, bellissimo, in cui Lopéz viene seguito mentre cerca di dipingere un albero di “membrillo”, come si dice in spagnolo, nel giardino della sua casa-studio. Una situazione comune, se l’artista non si chiamasse Lopez Garcia, che nei rami di mele cotogne non vuole cogliere la semplice apparenza, ma la verdad, pretendendo di bloccarne la mutevolezza come se fosse un valore assoluto, non contingente. Il traguardo sembra a portata di mano, ma sfugge: la luce giusta è quella mattutina, a sole pieno, dura poco e spesso - siamo già in autunno - il cielo é coperto. Finché la stagione non cambia definitivamente, e con essa la luce: le mele cadono, l’opera deve essere interrotta. Altro che accademico reazionario, come hanno detto gli stolti: l’incompiutezza di Lopez è concettualismo al massimo livello, riflessione sull’impossibilità di tradurre in arte la verdad come valore “congelato”, dato una volta per tutte. Gli iperrealisti, che “congelano”, puntano all’astrazione; la vita reale é diversa, fatta di stagioni che si alternano, luci che mutano, mele cotogne che maturano e poi marciscono. L’Iperrealismo chiede distacco, la verdad immedesimazione. Per esprimerla, ci vuole un linguaggio che non sia di autocompiacimento, rivolto all’interno, ma di sensibilità panica, totalmente rivolta all’esterno. Si fraintenderebbe se s’interpretasse l’incompiutezza verdadera come fallimento: nulla, in arte, è ritenuto più riuscito di un’opera di Lopez Garcia. La verdad è raggiungibile, ma necessita di molta pazienza, la si coglie a più riprese, non in un colpo solo. L’opera deve adeguarsi a questa condizione, lasciare aperto il discorso, in modo che sia sempre suscettibile, almeno potenzialmente, di nuovi sviluppi, finché non si sia del tutto esaurito. Solo dopo venticinque anni, Lopez ha smesso di mettere mano ai celebri Hombre y Mujer. Il non-finito, al contrario dell’incompiuto, è un discorso che è stato chiuso, anticipatamente. Che derivi in maniera più o meno mediata da quella di Lopez Garcia, mi immagino Ortona ancora più radicale dello spagnolo nel concepire la precarietà come fondamento dell’arte. Non mi sorprenderei se, a distanza di tempo dalla realizzazione di certe sue opere incompiute, si presentasse presso i galleristi, i collezionisti, o i semplici possessori che le detenessero, con pennelli e colori, e dicesse loro: “Scusate, avevo lasciato in sospeso un discorso, e nel frattempo qualcosa è cambiato. Se permettete, avrei ancora cose da dire, e non é nemmeno detto che siano le ultime”. Chi non lo lasciasse fare, in piena libertà, dimostrerebbe di avere capito poco o niente dell’ossigeno di Giorgio Ortona, verdadero romano, a suo modo nuovo Vespignani, nuovo Schifano, nuovo Guccione.
...Nei comodi giorni nostri non è la densità della paura a fare abbandonare la città, ma il disagio provocato da una ansia sottile. E il motivo ne è quindi molto più complesso. E’ legato al fatto che la città non serve più molto all’arte, anzi forse ne limita la libertà espressiva perché tende a condizionarla secondo gli unici parametri che conosce, che sono parametri puramente commerciali. I pochi tavolini da bar non ancora requisiti dalla happy hour si sono spostati in mille luoghi che hanno la fortuna di potere esistere perché legittimati dalla loro consistenza leggera. La comunicazione ha tolto per fortuna ogni tipo di barriera. E la cosa è forse ancora più definitiva: quella necessaria sensazione di appartenenza ad un mondo speciale, a quello dove si inventa o si distilla l’arte, è più facile ritrovarla in simposi temporanei, dove le esperienze si possono confrontare, se lo vogliono, o possono rimanere puramente coesistenti, se lo si preferisce. Ecco ciò che è successo l’estate scorsa all’Ulmo, quando tre artisti siciliani si sono trovati ad incontrare, per arbitrio dei curatori, cinque artisti appartenenti al continente, non italiano ma europeo… ...E poi Giorgio Ortona l'architetto che piace tanto al mio amico Vanni Pasca perché del mistero dell'architettura racconta il momento ad alto pathos della costruzione e del calcestruzzo...
“Viviamo tutti sotto lo stesso cielo, ma non tutti abbiamo il medesimo orizzonte”, ricordava Adenauer, cancelliere della Repubblica federale tedesca, nata dopo la Seconda guerra mondiale. Nella nostra copertina, due ragazzi, uno bianco e uno di colore, osservano l’orizzonte di un mare avvolto dalle luci dell’estate: che cosa guardano davvero? Quali sono i loro orizzonti? Quali i loro sogni? Quali paure e speranze? Giorgio Ortona (Tripoli, 1960, vive a Roma) ha scelto quest’opera per la nostra cover come simbolo di un’idea di condivisione dello sguardo di fronte a un orizzonte comune, denso di incognite. Ortona, uno degli artisti figurativi più interessanti del panorama italiano, (recentemente esposto al Macro) lavora con una pittura a olio densa di materia, al tempo stesso indefinita, incompiuta, suggerendo lampi di astrazione assoluta. Le sue visioni contemporanee sono figlie di un realismo senza compiacimenti, talvolta crudo: la periferia romana, scorci desolati di città in costruzione, nature morte o bagnanti che danno vita a un grande racconto corale, quasi una ricerca antropologica, specchio inquietante del nostro vivere quotidiano.
“Il paesaggio si pensa in me e io sono la sua coscienza.
Paul Cézanne
Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.
Fernando Pessoa
Il sublime quotidiano è un fatto concreto, ha una struttura e uno scheletro, ha perfino un ritmo, se lo si riesce a trovare nel visibile. E Giorgio Ortona lo cerca ansiosamente salendo sulle terrazze condominiali con la stessa trepidazione con cui i romantici ascendevano alle vette delle montagne alla ricerca del divino nello spettacolo della natura. A lui però, agno- stico dichiarato, la trascendenza non interessa, pur perseverando nell’inseguire un proprio, personale assoluto che appunto è forma, composizione, struttura, ritmo, in quella sorta di folle censimento del visibile metropolitano che costituisce il suo territorio di caccia. È una specie di ossessione classificatoria che rimanda ludicamente, come dice il titolo della mostra a MACRO Testaccio, al gioco “Nomi, cose e città” che era tanto in voga parecchi decenni fa e che per il nostro artista è anche un irresistibile richiamo all’infanzia.
Il lavoro paziente di Ortona, meticoloso come quello di un pittore antico, si fonda essenzial- mente sul bisturi analitico e costruttivo del disegno (ecco riaffiorare l’importanza dei suoi studi di architettura e, in particolare, di geometria descrittiva) dopo aver steso sei o sette strati di gesso acrilico sulla tavola per trasformarla, appunto, in un foglio rigido da disegno. Così, nel suo processo tecnico, la composizione riacquista quella centralità oggi quasi sempre vituperata, tanto che recentemente il nostro artista è arrivato ad usare la matita colorata. Ma Ortona, col suo romanticismo pragmatico e sempre risolutamente antiretorico, non na- sconde la propria curiosità per la tecnologia e così utilizza non di rado le panoramiche in 3D sulle città di tutto il mondo consentite da Google Earth e se non ci fossero problemi di privacy acquisterebbe un drone per dirigere lui stesso infiniti voli urbani. «Cerco l’assoluto – ci dice con scoppi di entusiasmo mentre si muove freneticamente nello studio – attraverso le forme. E quando mi chiedono di dare una definizione a quel che faccio, dico solo che sono un pittore. Non voglio illustrare niente né essere connotato.» È questo il punto: ad Ortona sta troppo stretta la classificazione di “pittore figurativo” o di realista tout court. Nell’insisterci sopra, si limita l’ampiezza pluralista di una ricerca che ha forte analogia con la musica (lo ribadiscono, fra l’altro, anche la passione di Ortona per il jazz elettrico, da lui suonato e l’attenzione maniacale alla composizione, come se la tavola fosse un pentagramma) e con sintetiche componenti astrattive. Del resto lui stesso ama ripetere che la musica è “matematica sensibile” e probabilmente questa è una definizione ben adatta anche alla sua vocazione pittorica. Se non ci si lascia incantare soltanto dall’estasi metropolitana del primo impatto vi- sivo, si scopre infatti la potenza di una pittura ritmica, musicale, serrata, fondata sul corto- circuito martellante fra ripetizioni e variazioni (esemplare in questo senso un’opera come
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Palazzine all’Appio Latino, del 2016). Se da un lato è inevitabile pensare, solo per fare due nomi fra i più importanti per la ricerca di Ortona, alle periferie del secondo dopoguerra di Renzo Vespignani (grande artista scandalosamente misconosciuto) e allo sconvolgente rea- lismo di Antonio López García, sotto un altro punto di vista potrebbe sembrare quasi un’ere- sia chiamare invece in causa, mutatis mutandis, Piet Mondrian, con il suo neoplasticismo musicale e universale che si chiude e al tempo stesso si rinnova a contatto col diorama me- tropolitano di New York City: «... le strade, cioè i complessi di edifici, devono esprimere da sé in modo equivalente la natura interiorizzata e lo spirito esteriorizzato», scriveva il lungi- mirante olandese. Eppure è lo stesso Ortona, con la sua consueta discrezione che cela la “rivelazione” nel dettaglio, a farlo scendere in campo, tanto che una delle sue opere più ri- levanti fra quelle esposte nella mostra a MACRO Testaccio si intitola romamondrian. Proprio nella concisa e tambureggiante scansione compositiva di questo lavoro è evidente il ritmo del suono pittorico che avanza e poi si ferma bruscamente, che combina silenzio e sonorità, facendo un passo in avanti e uno indietro, con una dissonanza vitale che demolisce brusca- mente le “melodie” paesaggistiche e panoramiche di tanta tradizione vedutistica. Così, nelle sue opere di questi ultimi anni avviene un po’ quel che accade nel jazz: passo lento e veloce, improvvisazione e costante di base, armonie e disarmonie, il ritmo si intreccia di ripetizioni e dissonanze. Del resto Ortona condivide con Mondrian una grande ossessione, quella di “vedere chiaro”. E in qualche modo anche per lui la trama ortogonale della composizione è la forma invariante dell’universale mentre il ritmo libero e scandito dal vuoto suggerisce una relazione con il variabile dell’esistenza, della vita. Così Giorgio, attraverso ritmi pittorici musicalmente sincopati, rende implicitamente le dinamiche oppositive della vita in città senza essere illustrativo né banalmente narrativo e mettendosi per certi aspetti in sintonia con quanto affermava il fondatore della concezione neoplastica: «la realtà è intesa come la ma- nifestazione plastica di forme e non di eventi della vita». E probabilmente il nostro artista potrebbe ben condividere anche la distinzione (citata da Luigi Paolo Finizio nel suo bel vo- lume dedicato al grande olandese) fatta da Mondrian fra l’arte realista e quella superreali- sta: esse si differenziavano, a suo vedere, nel loro modo “de subir la vie”, affrontandola in senso individuale o universale. Ecco, mi sembra che ormai Ortona sia, fatte le debite pro- porzioni, più superrealista che realista. E in fin dei conti è lui stesso a ribadirlo con decisione, anche in una recente intervista con Marco Di Capua: «Una volta scelto il soggetto, eseguo con esattezza la forma dell’oggetto, e in questo modo mi approprio di una sorta di astra- zione assoluta. Ricerco l’astratto, non la realtà, so che è un paradosso. Cerco l’astratto per- ché vorrei trovare la pittura allo stato puro. Mi servo del reale per farne altro! Ecco perché una volta analizzata la forma, la distruggo, la spengo, la ammutolisco, o addirittura la rad- doppio o la triplico, e raddoppiandola è come se la consegnassi al nulla». Per questo la sua pittura è ibrida, molteplice («ognuno di noi è più di uno, è molti» diceva Pessoa) nello scar- dinamento linguistico di generi consolidati (la veduta ma anche il ritratto, ad esempio), forse anche perché la stessa storia personale di Giorgio contiene un’ampia pluralità di origini e di voci che si legano a cinque paesi diversi del Mediterraneo, in un ideale piano sequenza che dal nord Africa va all’Europa e prosegue fino al Medio Oriente: la Libia, dove è nato;
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l’Italia, dove si è formato e in cui vive; la Tunisia e la Francia per le origini di sua madre (ecco il cognome materno, Journo, comparire nei lavori siglati da Ortona); Israele in quanto ebreo.
Il nostro artista, nell’ormai famosa conversazione del 1997 con Antonio López García, ha spiegato bene che nella sua pittura non c’è alcuna gerarchia di importanza fra figure umane, oggetti o edifici: «Nel momento in cui lavoro, non faccio assolutamente differenza tra un’ar- chitettura, una natura morta o un corpo umano. Concepisco tutti questi elementi senza con- siderare che hanno ovviamente caratteristiche differenti e proprie. È quasi indifferente il soggetto, che a me colpisce esclusivamente per la sua forma e per il colore, ma anche per il suo posizionamento nello spazio. Ad esempio il quadro Antonio, che ho pensato come oggetto e non come essere umano». Però è innegabile la sua passione per le palazzine (quelle romane in particolare e soprattutto quelle poste fra centro e periferia) e questa os- sessione dipinta nei modi peculiari di Ortona trasuda comunque un suo umore esistenziale e direi una visione antropologica del nostro paese. Da un lato le sue vedute panoramiche, colme di cancellazioni, di pause e di vuoti, di oscillazioni ritmiche fra stesure pittoriche cri- stalline e colori “sporchi”, sono anche ascetiche vanitas in cui le opere dell’uomo sono sog- gette al tempo che consuma tutto e al nulla che incombe implacabile. Una luce quasi polverosa avvolge caseggiati, prati, cantieri, le rare figure perlopiù senza volto e sembra accadere esattamente quanto notato mirabilmente da Fernando Pessoa: «In mezzo al ca- seggiato, in un alternarsi di luce e di ombra (o meglio, di luce e di minore luce) il mattino si scioglie sulla città. Sembra che esso non nasca dal sole ma dalla città e che la luce dell’alto si stacchi dai muri e dai tetti: non da essi fisicamente, ma da essi perché sono lì». E poi, nel solido rigore e ascetismo di questa pittura, leggiamo fra le righe la nostalgia per un’Italia ormai sparita, più semplice, schietta, magari “popolare”, quella delle palazzine degli anni sessanta e settanta, quella con la mania delle figurine Panini (chi non ricorda quanto fosse rara la figurina del portiere Pier Luigi Pizzaballa?), con le fiere di paese o di quartiere, le antenne al posto delle parabole televisive, ecc. Senza illustrare alcunché, nel pentagramma delle sue vedute urbane Ortona lascia, con uno scarno senso della misura condito di raffinata ironia e sincero gusto del gioco, messaggi cifrati mai casuali: i ritratti tipo figurine Panini fanno riferimento a quegli album dedicati ai calciatori che, come ha scritto il giornalista Leo Turrini, permettono di «“navigare” non alla maniera di Internet ma fisicamente, tra piccole immagini che racchiudevano e racchiudono, nel limitatissimo formato di una minuscola icona, la storia e la leggenda di meravigliose suggestioni popolari. La figurina di un campione, ma anche quella di un bidone, è la testimonianza di un attimo di vita che spontaneamente si offre alla considerazione collettiva. Noi saremo ciò che siamo stati: Giuseppe Panini lo aveva capito, così come aveva intuito il senso migliore dell’agonismo come quotidiana tensione al miglioramento, al progresso, alla competizione che si trasforma, anche, in poesia». Era un’Italia più vera, in qualche modo più sana. E non a caso, pensando al nostro paese di oggi, Ortona crea la propria nicchia ecologica in uno stato di sospensione e di voluta in- compiutezza che diventa dimensione interiore “periferica”, solitaria, lontana da qualsiasi centralità magniloquente ed artificiosa. Anche quando il suo drone munito di matita e pen- nello mette a fuoco una spiaggia, qualsiasi pur minimo effetto pittoresco legato al mare o al
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cielo è abolito in partenza: il contesto ambientale è ridotto a un’infilata di superfici piatte, astratte, assolutamente antinaturalistiche, e in primo piano stanno singoli bagnanti, perlopiù senza volto, ritratti in vari “scatti” e pose dense di un’epica banalità. Quella vagheggiata da Ortona, fra nostalgia e azzardo autoironico (che ha nel suo DNA l’umorismo ebraico), è un’Italia semplice e schietta, Aglio, olio e peperoncino, come recita il titolo di una sua opera del 2016 in cui presenze e assenze, pieni e vuoti, scorrono su un impianto orizzontale che sembra dover continuare all’infinito in un solo lunghissimo piano sequenza, peraltro ti- pico anche di altri suoi lavori quanto mai convincenti, come Flaminio (2015). Così, nella sua “chiaroveggenza”, Giorgio è anche un visionario (come accade del resto, fatte le dovute proporzioni, per altri due pittori romani nati nella Libia italiana, ben prima di Giorgio, ovvero Mario Schifano ed Ennio Calabria): perfino dei miseri calchi di dentiera sembrano trasformarsi quasi miracolosamente in scorci del Foro Romano con ruderi e frammenti architettonici, in ritmi sincopati e musicali, oppure mucchi di sdraio accatastate su spiagge deserte sembrano acquisire una sorprendente monumentalità. Come per Morandi le bottiglie diventavano quasi cattedrali, o come per Antonio López García squallidi interni di bagni scrostati diventano luoghi carichi di un abbacinante mistero esistenziale, così, per Ortona, sacchi da cantiere, corpi, palazzine, sdraio, calchi di dentiere, si trasformano in “oggetti d’affezione” sottilmente metamorfici, presenze defilate, antiretoriche, “vestite” solo della propria autenticità.
Ad ognuno di noi è familiare una certa situazione curiosamente poco analizzata. Siamo immersi in fantasticherie. Improvvisamente un rumore, qualche piccolo accadimento, ci restituiscono brutalmente al mondo quotidiano che ci circonda. Le impressioni irrompono. Per un lungo momento nulla ha senso. Siamo consci di osservare delle cose completamente familiari, ma delle quali non riconosciamo più il loro senso. La realtà visibile che stiamo osservando è improvvisamente estranea, sganciata da quello che pensiamo di sapere. Per me, questo momento di dissoluzione psichica è direttamente paragonabile all’effetto dei quadri di Giorgio Ortona, particolarmente quelli con soggetti architettonici. Il loro impatto visivo è rafforzato dal fatto che le immagini sono spesso lasciate incompiute, come se fossero ancora in divenire. L’Italia ha una lunga tradizione di opere con soggetti architettonici, che inizia forse con la famosa immagine di una città ideale, prima attribuita a Piero della Francesca, ma oggi comunemente assegnata al Laurana. Questa tradizione raggiunge il culmine nel XVIII secolo con Canaletto, Bellotto ed altri artisti esponenti di un genere pittorico chiamato vedutismo. E’ generalmente riconosciuto che il lavoro di questi pittori si divida in due tendenze: raffigurazione di quello che è reale e attuale, e raffigurazione di quello che è immaginario, sebbene gli elementi architettonici di questa seconda tendenza siano presi in prestito da edifici esistenti. All’interno della prima tendenza, troviamo un’ulteriore suddivisione, dove il pittore, per così dire, si pone in secondo piano, e invece di celebrare le glorie architettoniche di un particolare luogo, sceglie un posto insolito e di umili origini. Probabilmente l’esempio più famoso e collocabile in questa categoria è Il cantiere dello scalpellino del Canaletto, attualmente alla National Gallery di Londra. Quest’opera mostra come Campo San Vidal, a Venezia, sia stato trasformato in un laboratorio architettonico ad hoc, per restaurare l’attigua ma non raffigurata Chiesa di San Vidal. In un certo senso questo sembra offrire un chiaro parallelismo con alcune opere di Ortona, dove gli edifici sono raffigurati mentre sono in costruzione. La similitudine è, comunque, essenzialmente illusoria, perché i contesti sociali rappresentati nei quadri sono differenti. Il capolavoro del Canaletto racconta chiaramente la realtà urbana della comunità, un tipo di vita che sopravvive nella Venezia attuale per via della sua connotazione geografica. Ne Il cantiere dello scalpellino una madre si precipita a consolare il suo bambino che è caduto e sta piangendo e urinando. Un’altra donna è affacciata ad un balcone per vedere quello che sta succedendo. Su un altro balcone, una donna è seduta e sta filando. Azioni di questo genere non sono mai presenti nei quadri di Ortona. I suoi soggetti architettonici tipici sono condomini senz’anima che oggi circondano il cento storico di Roma. Si possono vedere dal taxi, arrivando in città dall’aeroporto. Lontani dal raccontare una qualsiasi forma di realtà collettiva, questi edifici parlano di solitudine, di persone che vivono in compartimenti piccoli e identici, la cui vita vera è altrove: non dove dormono, ma dove lavorano o dove si recano per divertirsi e forse per incontrare altri come loro. Queste costruzioni, prodotto della moderna speculazione edilizia italiana, non sono certo esteticamente belle. Ma non hanno ancora quei parametri sufficienti per essere definite brutte. Sebbene brutto sia il termine che si userebbe per ricordarle e descriverle cinque minuti dopo aver girato l’angolo. Forse è per questo motivo che diventano materiale perfetto per descrivere il meccanismo di alienazione di Ortona. Il paradosso è, naturalmente, che, mentre i soggetti di Ortona sono immemorabili – la mancanza di memorabilità è una conseguenza della loro essenza – i suoi quadri sono l’opposto. Sono seduttivi e si fissano nella mente. E’ abbastanza facile attribuire questa alla sua estrema abilità tecnica – una capacità questa, ahimè, assente nel lavoro di molti pittori contemporanei. Non è il primo artista della tradizione occidentale ad essere diventato noto per aver trasformato il completamente ordinario in qualcosa di completamente magico, attraverso l’uso della pittura ad olio applicata su una superficie piana. Vengono subito in mente le nature morte di Chardin. Il paragone è ancora più evidente quando si osserva l’avventurarsi di Ortona nella natura morta: immagini di sacchi e sacchetti, soggetti chiaramente scelti per l’assenza di caratterizzazione. Comunque ci sono anche, devo dire, altri fattori. L’elemento della cronaca sociale, come ho già suggerito, è difficile da evitare, sebbene credo l’artista voglia, almeno qualche volta, negare che questa sia una delle sue intenzioni. Sono evidenti, almeno per me, i collegamenti con la filosofia e la psicologia contemporanea. Se ci chiedessimo se un artista in passato avrebbe potuto dipingere questi quadri, la risposta è ovviamente “no”. Per renderci ben conto di questo, dobbiamo analizzare un altro aspetto del suo lavoro: i quadri rappresentanti figure umane. La cosa che appare immediatamente evidente è che sono profondamente e spudoratamente anti-classici. Sembrano sfidare il concetto di ideale classico, ma non alla maniera della pittura olandese del XVII secolo. Le pose scelte ci riconducono allo stile classico, alcune di queste infatti, risalendo attraverso i secoli, ricordano quelle delle statue greche e romane. I corpi e i volti dei modelli di Ortona (dove le facce sono presenti), restano sfacciatamente non idealizzati. Ho detto “dove le facce sono presenti” perché ha l’inquietante abitudine di cancellare le teste ad alcuni dei suoi modelli, in particolare quelli maschili. Questo, non perché semplicemente corrisponda alla sua idea del non finito, concetto ereditato dal Romanticismo, ma perché, il modo in cui è fatto, così definitivo e brutale, deve comunicare al fruitore qualcosa di specifico. Il suggerimento è che questi non sono individui, ma cifrari, pure unità spersonalizzate dalla massificazione della società moderna. L’effetto è più sorprendente, perché quando Ortona ritrae le teste di queste figure in piedi, la descrizione è sempre penetrante. E’ come se, in alcuni casi, l’artista fosse pienamente consapevole che i suoi soggetti posseggono personalità, ma questa è stata sequestrata seguendo un impulso: sradicare la loro peculiarità umana. Questo impulso si collega all’idea di Artaud, alla sua teoria del Teatro della Crudeltà; la necessità di azioni violente e gestuali che producano una “rottura” nella psiche dello spettatore rendendo reali le sensazioni e che ne fracassino la corazza che costruiamo per proteggerci dall’emozione pericolosa. Il lavoro di Ortona si ricollega anche, in modo leggermente diverso, al saggio sull’abiezione di Julia Kristeva. L’esempio della Kristeva è la morte. Una ferita con sangue e pus, o l’odore nauseabondo e acre di sudore, di putrefazione, non significano la morte. In presenza di morte certa, ad esempio un encefalogramma piatto, ho poche possibilità: capire, reagire o accettare. Come nel teatro naturalista, senza trucchi o maschere, rifiuti e cadaveri mi mostrano tutto quello che io metto da parte, per vivere. Questi liquidi organici, questo inquinamento, questa merda, sono il modo con cui la vita resiste, a stento e con difficoltà, alla morte. Qui, io sono al limite della mia condizione di essere umano. Il punto chiave è l’insistenza della Kristeva sul fatto che certi elementi, certi paragoni, rappresentano quello che io elimino, in maniera stabile, per vivere. Ortona non rappresenta scarti e cadaveri, è lontano da questo. Quello che fa invece è mostrare l’immagine di una società dove i valori umani potrebbero essere, molto presto, tutti sul letto di morte. Questo è il verme nella mela che ci mostra con la sua eccellente abilità tecnica. Egli sapientemente distanzia e blocca del tutto, la nostra capacità di riconoscerci in quello che stiamo diventando. Riconoscimento, che quando arriva, è tanto più potente a causa di questo blocco.
..."Cuba mon amour": ultima ma non meno importante dichiarazione di
consentaneità viene dalla pattuglia di artisti italiani ospiti del
padiglione cubano e non casualmente affini. La morale di "Hiroshima mon
amour" è che la pietra del passato, per quanto tragica e da non
dimenticare, non può e non deve ipotecare la vita e la richiesta di
futuro. Continuità della memoria e ritmo vitale della speranza: così
l'avventura espressiva dei giovani italiani interroga il panorama di
rovine della scena contemporanea (di "spazio-spazzatura" ci parla
acutamente l'architetto hi-tech Rem Koolhaas) e ne ricava un messaggio di
vivida luce oltre l'incombere di un presente vuoto e senza ideali...
...Senza confini, lo “spazio-spazzatura” di cui sembra ammantarsi il mondo
più evoluto della civiltà del benessere si offre ancora allo sguardo come
stesura smisurata di “città infinita”, cromaticamente narrata da Giorgio
Ortona (n.1960) capace di elaborare visivamente le sue profezie nella
“prosa” di una narratività lucida e pianamente documentaria...
...Così l'ironia,, il senso del distacco e la impietosa visione delle
esperienze limite della civiltà occidentale,, segnano per gli artisti
italiani un modo di fare arte che associa con misura e intelligenza
l'elemento etico a uello estetico. E da lezioni per nulaa ambigue come
queste viene una apertura coraggiosa verso il futuro in una straordinaria
effervescenza di vita e di cultura che ancora una volta l'incontro con la
ospitalità Cuba, e con i testimoni della sua "volontà d'arte", è in grado
di offrire e progettare.
Nel giugno 1971 la discografia rock si arricchisce di un nuovo
capolavoro live. Si tratta della registrazione dei concerti tenuti, nel
giugno dell’anno prima, al Filmore East di New York, al Chicago Auditorium
e al Forum di Los Angeles, dal quartetto più famoso della West Coast, che
insieme aveva già pubblicato il fondamentale “Déjà Vu”. CSN&Y, questo
l’acronimo del supergruppo formato da David Crosby, Stephen Stills, Graham
Nash e Neil Young, corrisponde alla somma di quattro solisti, ciascuno già
proiettato verso la propria carriera d’autore, che si uniscono spinti
dalla comune passione per la chitarra acustica e per le atmosfere
californiane. Pur risultando un insieme dal suono compatto e affiatato, i
protagonisti sono già su quattro strade diverse. Tra i brani
indimenticabili del doppio album, “Teach Your Children” scritto da Nash,
la discussa “Triad” di David Crosby che parla di un triangolo amoroso,
“Cowgirl in The Sand”, “Ohio” e “Southern Man”, autore Neil Young, il più
celebre e acclamato anche fuori dalla superband. Non è la prima volta e
non sarà certo l’ultima nella storia della musica che quattro assi si
mettono insieme temporaneamente per mandare un messaggio che sia quasi un
manifesto di una determinata sensibilità, di un sentire comune, di una
vicinanza di intenti. Tutti caratteri che identificano un mestiere, una
categoria, ma che non bastano a formare un gruppo compatto. Il destino è
che ognuno vada da sé, ciascuno per la propria strada, appunto, per
quattro strade diverse. Cose di questo genere accadono anche nell’arte.
Anzi, un tempo succedeva più spesso perché l’idea che “l’unione fa la
forza” prendeva vigore da esperienze vincenti come l’Arte Povera e la
Transavanguardia, brand ancor più che etichette, buone sia per i manuali
di storia che per l’esportazione a scopo affari. Successo di critica e di
mercato. Sulla scorta di tali esperienze, ottime nel lanciare il Made in
Italy oltre confine, si è sentita per molto tempo, almeno fino a quando si
è ragionato in termini di arte locale, poi la globalizzazione ha imposto
un altro sistema ben più ampio e articolato, l’esigenza di “fare gruppo”,
perché insieme è meglio che da soli (sembra uno slogan pubblicitario,
d’accordo). Ripercorrendo brevemente i principali ensemble pittorici del
tardo novecento italiano –la Nuova Scuola di San Lorenzo e gli
Anacronisti, il Nuovo Futurismo e la Pittura Mediale, l’Officina Milanese
e la Scuola Palermitana, ma andando più indietro i Sei di Torino, gli Otto
di Lionello Venturi, e poi Forma, il Fronte Nuovo delle Arti ecc…- ci
accorgiamo di come la teoria dell’insieme non abbia portato fortuna a
tutti in egual misura. Anzi, i più bravi si affrettano a prendere le
distanze dalle seconde file, perché l’arte non è il paese della
solidarietà o della fratellanza, ma quello della concorrenza spietata e
dell’individualismo esasperato. In molti preferiscono l’idea del
front-man, del solista, piuttosto che identificarsi in un nome comune:
Peter Gabriel più famoso dei Genesis, Morrissey liquida gli Smiths, i
fratelli Gallagher litigano e sciolgono gli Oasis, Damon Albarn, immerso
in manciate di progetti paralleli, liquida i Blur. Ogni volta che capita
l’occasione di una mostra che mette insieme o paragona un piccolo nucleo
di artisti, il critico giustamente deve chiedersi: perché questi e non
altri? Si tratta di una tendenza, di uno stile oppure di mera opportunità?
Chi sceglie cosa? Chi si arroga il diritto di dire, eh no, tu nel gruppo
non ci stai e tu invece entra pure? Negli anni Ottanta e Novanta queste
operazioni andavano molto di moda, e chi restava escluso ci rimaneva male.
Quante volte ho sentito dire: “non fosse morto improvvisamente Luigi
Carluccio, alla Biennale nel 1980 ci sarei stato anche io”; oppure
“dall’Arte Povera mi hanno eliminato perché il mio lavoro era diverso
dagli altri”. Ci si può credere oppure no, ma insomma sono questioni che
sembrano appartenere a un mondo molto lontano e distante dall’attualità.
Perciò è necessario intendere questa mostra, che prende il titolo dalla
suggestione del mitico doppio live di CSN&Y, non come una collettiva
ma come la somma di quattro personali. Una sola cosa accomuna i nostri
artisti: l’amore assoluto e incondizionato per la pittura. Il resto, sono
davvero quattro strade diverse...
Giorgio Ortona. Caro diario
Non amo particolarmente Nanni Moretti, forse perché non apprezzo chi lo ha
eletto guru di un pensiero farraginoso e snob, ma devo ammettere che la
sequenza del primo episodio di “Caro diario” (1993) dove l’attore-regista
gira in Vespa per Roma è una delle più belle del cinema italiano degli
ultimi vent’anni (i maligni dicono trattarsi dell’unica sequenza in
movimento lui abbia mai girato). E’ estate, la capitale semideserta e
depurata dal traffico, lascia finalmente spazio ai pensieri e alle
riflessioni. Si può girare a naso in su (è capitato più tardi anche a
Gabriele Salvatores ispirato da Marco Petrus, il film è “Happy Family”),
guardando i palazzi i cui dettagli normalmente ci sfuggono e ci appaiono
allora di struggente bellezza, una bellezza normale, fatta di equilibrio e
forma, la Roma umbertina dalla Garbatella a Prati, per poi spingersi verso
Spinaceto e Ostia, scivolando così inevitabilmente nella Roma pasoliniana,
negli anni Sessanta e nel rimpianto per la perdita della nostra innocenza.
Giorgio Ortona ha una maniera molto delicata di rapportarsi con
l’architettura della sua città d’adozione –è un apolide vero, nato in
Libia come Mario Schifano il mito, e di radici ebraiche. Le sue visioni
sono quanto di più lontano dalla pittura dei nonluoghi, il suo sguardo è
intriso di localismo orgoglioso, è la Roma rosa di Mafai citata da Valerio
Magrelli “davanti alle sue tele, c’è da credergli, persuasi da un’alchimia
cromatica che giunge dolcemente a trasfigurare il reale...”, memoria di un
dar colore raffinatissimo oltre il tempo massimo di cui, proprio per
questo ci sarà sempre bisogno.
...Poniamci una domanda preliminare: quale terra dell’arte stiamo concretamente perimetrando e nominando con questa mostra? Quali sono i punti cardinali che tocchiamo? Vediamo. Gerusalemme e il suo Muro del Pianto, onda anomala di una fisicità solenne, impressionante riparo, vasta consolazione di massi e blocchi risonanti come una sinfonia della pietra (Massimo Giannoni), una Istanbul sorvolata come da un drone curioso di attraversare a piacimento la linea che divide di qua l’Europa, di là l’Asia, magneticamente attratto da sciami luminosi, costellazioni non intraviste lassù ma radenti il suolo, spettacoli notturni (Tommaso Ottieni), New York e Roma nel loro ordinato farsi e disfarsi, nella loro costante, mite e animalesca biologia architettonica (Bernardo Siciliano, Giorgio Ortona)...
Immersi nel concettuale per forzatura ideologica, stentiamo a credere la pittura ancora viva. Ci doliamo con fare reazionario di questa perdita, spesso di nascosto per non incorrere nell’insulto di “passatista”, ma giusto con vergogna prendiamo le difese di chi ancora per vezzo o necessità esistenziale la frequenta. Quasi non credessimo più nella forza dell’arte della tradizione, ci compiaciamo delle istallazioni senza senso, della body art più insulsa, cinguettiamo felici alle performance modaiole. Poi nell’intimo delle nostre case, della nostra anima, collezioniamo quadri che ci forniscano l’ultimo sussulto consolatorio di una perduta bellezza, visto che già la vita fa schifo e dunque perché abbandonarsi ad un arte che esasperi questa prospettiva. Data la premessa, riteniamo sufficiente a giustificare una mostra di arte contemporanea la qualità delle opere esposte, il piacere che esse ci regalano al puro sguardo. Non sono necessarie verbose sovrastrutture, per concederci il lusso di ammirare bei dipinti. D’altronde questi artisti sono contemporanei in quanto vivi, e solo una snobistica avanguardia di regime relega la figurazione ai margini, indicandola come sorpassata. Per cui non ci scandalizza neppure la franchezza del curatore, lungi dall’imbonirci inutili liasion, quando ci spiega che i quattro sono solisti che non hanno alcuna vicinanza se non l’essersi trovati insieme per piacere del critico, il vero dominus dell’artsystem, il quale decide per enumerazione o sottrazione le sorti delle correnti e dei cenacoli. Certo, i quattro sono uniti dalla bravura tecnica, il che nel contemporaneo non è sempre una virtù, spesso preferendo il fatto male e l’insensato al ragionato e ben fatto. In ogni caso, loro sono campioni degli “a solo”, non cercano improbabili comunanze o conventicole, e la pur succinta antologia evidenzia quanto ancora può darci la pittura e la figurazione quando l’artista si misura innanzitutto col senso delle cose usando gli strumenti estetici che gli sono propri: l’algida rappresentazione del paesaggio di Siciliano confrontata al lirismo del non finito di Ortona, il grottesco di Alioto paragonato al citazionismo mitologico di Arrivabene. Quattro modi diversi di rispondere all’eterna domanda “perché non la tela bianca?”, quattro modi di contrapporre la forma al kaos, di resistere all’entropia cui siamo destinati.
...quegli autori, da Kokocinski, a Bergomi, a Ortona, che riprendono la grande tradizione italiana di figurazione, senza rischi fotografici o illustrativi, di concentrazione nella forma, dell'idea della forma... ...Ortona, vedutista avvertito dalla moderna tradizione del realismo spagnolo e dal realismo americano riportati in una pittura franca e luminosa...
...Il mare e il deserto si sono intrecciati in un turbinio di domande e nessuno è all’altezza di rivelarne il senso complesso, devastante, impossibile. Nessun bisogno di premessa e di rispetto per ciò che non si può donare. Allora lo si disegna, lo si rappresenta, lo si trasporta nell’adulazione di tutti i suoi misteri... ...Giorgio Ortona cancella il volto di uno scaricatore di porto;... ...Non si può guardare il mare come un’opera della natura, un’immagine tranquilla senza che, dietro questa assoluta calma, non affiorino corpi di annegati. ...Il mare è anche una speranza andata a male, una scommessa che scava una tomba immensa, vascelli di carta che affondano nella notte e altri che si alzano come statue spaventate dalla bellezza del mondo, dalla grazia di una grande speranza. Questo è ciò che gli artisti qui riuniti esprimono con eleganza, bellezza e talento...
...Così come Giorgio Ortona e Mauro Reggio, per citare due affini, pur avendo spaziato altrove, restano innanzitutto pittori di Roma. Di seguito elenco le ulteriori differenze. L'inquadratura: Petrus da un certo momento in poi dipinge dettagli, non edifici da terra a tetto, mentre Ortona e Reggio allargano il campo fino a diventare, da pittori-architetti, pittori-urbanisti. Il tempo: Petrus è un novecentista puro, legato in particolare ai decenni centrali del secolo, invece Reggio cavalca tutta la plurimillenaria storia di Roma e Ortona si commuove solo di fronte all'edilizia postbellica. I progettisti: Petrus è un etilista, documenta soltanto architetti presenti nelle storie dell'architettura o meritevoli di entrarci, quando Reggio è più ecumenico e Ortona addirittura predilige i professionisti anonimi che nella storia dell'architettura non entreranno mai...
Pittura consumata dal tempo archeologico, pittura resistente nella sua fibra minerale, pittura in cui senti la misura fisica di uno spazio tanto percepibile quanto sospeso nelle bolle di una metafisica urbana. Giorgio Ortona è il primo artista con cui raccontiamo la nostra anomala visuale del tempo pandemico: quel giro inaspettato di calendario, un’improvvisa pausa collettiva, la predizione di una società che d’ora in poi affronterà la Natura senza mediazioni morbide, una guerra tra micro e macro dove la centralità vitruviana della nostra misura non sarà più sufficiente per gestire la vecchia idea di normalità. I quadri di questa serie, prodotti nei due mesi di reclusione casalinga, ne sono la misura percepita e veggente: lacerazioni, callosità, calcificazioni, lo spazio che resta limpido nella sua figurazione ma si svuota del suo tempo recente, dei suoi riti prepandemici, recuperando il disegno edilizio e le geometrie urbanistiche, immergendo l’inquadratura nella radice moderna di una Roma mineralizzata. Ortona usa lo sguardo panoramico e la profondità di campo per (ri)ambientare la sua prossimità familiare, dando tangibilità al silenzio dei quartieri, situando l’occhio su una città “palazzinara” che lambisce i rioni storici; una Roma che diventa organismo digestivo e batterico, che ingloba la solitudine di una vecchia Fiat 500, che assorbe i corpi nel suo metabolismo lento ma costante. L’artista romano ci restituisce il naturalismo scheletrico della città dormiente, trovando la perfetta sintonia tra corpi tracciabili e traiettorie della rigenerazione. Un dipingere instabile e proliferante, simile al processo invisibile che conduce alla solidità dei minerali. Una pittura che ingloba la natura stessa del virus, levando enfasi al caos informativo, ridando centralità alla posizione dei singoli esseri umani, alle polarità magnetiche di ogni singola entità nel disegno urbano.
E’ da un po’ di tempo che vado pensando di pubblicare i tanti elzeviri scritti su Roma, prendendo spunto da una poesia, da un quadro, da un romanzo, da un aneddoto. Corrado Alvaro diceva e ripeteva convinto che Roma è un indovinello sia per chi vi trascorre una sola giornata, per chi vi abita un mese o un anno o la vita intera. Un indovinello che si traveste a seconda delle stagioni, a seconda degli umori e delle percezioni di chi la guarda e, caso più unico che raro, Roma cambia colore continuamente nell’arco della giornata, tanto è vero che le sue albe hanno una luce devastante, i suoi tramonti un rosso da ubriacare, i suoi mezzogiorni un azzurro marino. Lo testimoniano i tanti pittori e i tanti poeti che di Roma hanno fatto la Musa prediletta, il luogo privilegiato dell’arte. Una Roma Rosa però sembrava impensabile fino a che Giorgio Ortona non ce l’ha fatta visitare con immagini all’impatto incredibili ma che subito si sono stagliate come una sintesi di pittura neo figurativa che compone e scompone, contemporaneamente, certe inquadrature alle quali avevano tentato di abituarci Burri, Pitocco e Vespignani. Giorgio però va oltre gli intenti di questi tre grandi artisti sia per quanto riguarda il colore e sia per quanto riguarda le immagini. E’ come se dall’alto egli cogliesse a volo momenti urbanistici dei quartieri romani Ardeatino, Centocelle, Boccea, Appio, Tiburtino con sfasature che danno ritmo e movimento alle opere fino a renderle belle, un bello, direbbe Umberto Eco, che viene dall’armonia saputa organizzare mettendo in contrasto elementi pittorici tra loro improbabili da cui deve scaturire un corto circuito che sommuove l’icasticità del risaputo e crea una nuova sintesi visiva. Che ci fanno Vito, Antonio e altri nei cantieri? Sono in primo piano e dominano come a voler fermare lo sguardo e non farlo andare oltre se stessi. Invece stagliano con maggiore lucidità e maggiore poesia le periferie, con quel rosa che sembra spruzzato da una mano di adolescente che comincia a imbellettarsi. L’operazione di Giorgio Ortona è delicata, poteva dare adito a interpretazioni azzardate che spesso i critici fanno lasciandosi influenzare e leggendo come “trovata” l’esigenza dell’artista a scardinare le coordinate e ridare loro un assetto inedito. Una delicatezza che però non diventa belletto, ma visione interiore di una città sognata, di un bisogno di rimuovere il superfluo e tentare l’avvento della conclusione. Troppe volte gli squarci, come altrimenti chiamarli?, dei palazzoni di periferia non finiti ci hanno messo angoscia, ci hanno spinto a gridare allo scandalo e ci hanno dato il senso di quella incompiutezza che si trascina per anni e ci pone scomodi. Un’offesa all’estetica. Ebbene, Giorgio Ortona da questa “offesa” trae ispirazione e ne ricava opere che danno il piacere della pittura. Non sembri un fatto scontato quello di riuscire a rappresentare obbrobri e farne segni indelebili di straordinaria magnificenza pittorica. Bisogna però salire in alto, sui terrazzi, sugli abbaini e guardare col cuore sgombro, senza pregiudizi né estetici né politici. Se lo si fa col cuore aperto alle suggestioni, allora si potrà comprendere il senso e la ragione di una pittura che non ha voluto inneggiare alla Roma consacrata, ma da consacrare, perché l’architettura cambia di decennio in decennio e bisogna coglierne le valenze certamente urbanistiche, ma anche quelle del sogno che sempre aleggia oltre la pietra, oltre i piani, oltre le barriere di cemento. Un canto alla periferia però fatto senza grida e senza contrapposizioni, mettendosi nelle vesti di chi accetta la novità e vi si consegna, non ciecamente, ma portandovi le sue campiture di verde, i suoi rosa che paiono realizzati da angeli umanissimi. Tantissimi anni fa, esattamente nel 1967, quando dalla Calabria approdai a Roma fui costretto, per ragioni economiche, ad abitare nei tuguri di alcune periferie. Non tutto era fradicio e appiccicaticcio, c’erano i davanzali che si proiettavano verso spazi anonimi che alcuni di noi studenti sognavamo di riempire di colori, quelli della nostra anima, per non perire nel grigiore quotidiano. Ne venne fuori un libro, Passeggiate Romane, che soltanto nel titolo ricalcava Stendhal e Gregorovius, e che fece dire a Dario Bellezza, che Roma la viveva intensamente anche nei risvolti pasoliniani, che io sono “uno dei più felici poeti dell’Italia moderna”. Mi auguro che l’affermazione sia venuta dal come scrivo, ma anche dalla scelta da me fatta in direzione del marginale, del mio sguardo posato sulle periferie e non in maniera sociologica. Giorgio Ortona finalmente al grigiore ha dato voce e anima, ha dato il rosa che sa cantare con voce dolce la crescita e l’accettazione del brutto se lo si sa trasformare in verità del cuore, senza vezzi picassiani che facciano pensare al suo periodo rosa, senza tracce del progetto di Remo Brindisi che negli anni settanta, se non ricordo male, vedeva tutto in rosa. Nelle opere di Giorgio c’è un grido silenzioso, una invocazione, perfino una piccola dose di esaltazione, quella scelta maniacale che solo i grandi pittori sanno imporre e dipanare in immagini dense di umori, uniche e decisamente poetiche.
Accadde esattamente vent’anni fa. Italia Nostra aveva organizzato un incontro per protestare contro la sopraelevazione di uno stabile che avrebbe nascosto un magnifico scorcio di San Pietro. L’appuntamento era stato fissato in un edificio vicino alla Stazione Vaticana. Mentre iniziarono a risuonare i primi tuoni, giornalisti, fotografi e curiosi si accalcavano lungo le scale per raggiungere il terrazzo condominiale. Spingevano, salivano, sudavano, lungo i pianerottoli bui, elettrizzati dall’imminente temporale. Ricordo ancora la visita con emozione. Infatti, arrivati in alto, ci trovammo quasi alla stessa altezza della cupola michelangiolesca, o meglio del suo basamento. E fu sotto una pioggia battente, che ebbe luogo il prodigio. Quando eravamo giunti, il piombo della sua superficie appariva bianco, a causa dell'ossidazione. Adesso, invece, l'acqua gli rendeva l’aspetto originale, e man mano la sagoma andava tingendosi di grigio, di azzurrino, di violetto: il monumento trascolorava sotto i nostri occhi, come certe statuette della Madonna luccicanti di minerali cristallini. Se sono tornato a questo ricordo, è perché nei quadri di Giorgio Ortona, e in particolare nelle sue vedute urbane, ritrovo qualcosa di quella lontana esperienza. Innanzitutto per via dei suoi racconti di ascensione sulle terrazze condominiali di stabili sconosciuti - vera e propria iniziazione all’arte. Un bel libro di Tommaso Giartosio appena uscito, L’O di Roma, narra appunto di tali visite in luoghi estranei, con il portiere che vi esamina diffidente o l’abitante che vi scruta dallo spioncino, prima di decidersi ad aprire o meno la grotta del tesoro. Grotta che, per Ortona, è costituita dagli struggenti lavatoi dismessi, e, soprattutto, dalle grandi distese aperte al cielo, set ideale del nostro migliore cinema, con lo Scola de La terrazza, tanto caro all’autore, o il Monicelli de I soliti Ignoti. Nel nostro primo colloquio, per inciso, Ortona stesso mi ha raccontato d’essere stato colpito da una poesia che scrissi venticinque anni fa, dedicandola appunto a quel magico spazio tutto italiano (nel segno di un De Chirico antropologico, direi): Non sono di nessuno Le terrazze condominiali. Vi si lasciano i panni ad asciugare, i panni del deserto. Sono altopiani vasti, vasti e disabitati, abbandonati ad un’infanzia aerea. Ma qual è il motivo di simili escursioni che spingono il pittore verso l’alto? La risposta ci porta nel cuore della sua opera: conquistare una postazione sopraelevata per meglio raffigurare la città. In un’epoca che ha visto l’Europa dilaniata dalle orribili guerre balcaniche, un’esigenza del genere potrebbe far pensare alla letale missione di un cecchino. Nulla di più sbagliato. Lo sguardo mite ma al contempo analiticissimo di questo artista, non cerca forme di morte, ma di vita, e le trova (oltre che negli still life o nelle figure umane) nel tessuto metropolitano perlustrato dalla cima dei casamenti. L’ascensione verso le terrazze condominiali, questo smagliante e “intraducibile” patrimonio della nostra capitale, rappresenta quindi il presupposto del suo protocollo estetico, il raggiungimento di un punto ideale di mira e ammirazione. Ciò, tuttavia, spiega soltanto in parte l’evocazione del mio incontro con la cupola mutante di San Pietro. In realtà, la vera ragione del suo accostamento ai quadri di Ortona, riguarda la questione della metamorfosi ottica. Così come la pioggia permise alla Basilica di cambiare colore sotto i miei occhi sbalorditi, nella stessa maniera le vedute di questo “scrutatore” offrono a chi li osserva un altro tipo di trasfigurazione, quella cui accenna, per l’appunto, il titolo della mostra (cui aggiungerei soltanto un punto esclamativo): Roma rosa! Appio Latino, Boccea, Centocelle, Ardeatino e Tiburtino. Certe riprese aeree di immobili o cantieri per me riproducono il portento di quell’antico “potere del temporale vaticano”. Una volta tanto, vorrei giocare con la storica espressione, per suggerire, invece del “potere temporale del Vaticano”, una vivida burrasca nei cieli pontifici. Certi sguardi dall’alto, surplombants come dicono i francesi (e Ortona lo è da parte di madre), hanno la capacità di svelarci un’altra Urbe. Ed è toccante il contrasto fra il microscopico dettaglio del suo disegno, e la presenza di grandi campiture monocrome (il rosa, ovviamente, o il marrone bruciato) accanto a qualche persiana verde e isolata, alcuni improvvisi sbuffi arancioni, o un azzurro imprevisto. “Io me ne intendo, di periferie”, mi ha spiegato Giorgio. In tal modo mi ha introdotto al suo segreto, e quasi inconfessabile, amore per le palazzine di Roma, tanto universalmente deprecate, eppure, insiste, molto più belle delle loro omologhe di Palermo, Napoli o Torino. Hanno al massimo sette piani, forse per non superare l’altezza di San Pietro (il cupolone torna a infestare il nostro discorso), e una grazia, una grazia... Davanti alle sue tele, c’è da credergli, persuasi da un’alchimia cromatica che giunge dolcemente a trasfigurare il reale.
...Chi credeva che la pittura di paesaggio fosse morta, può essere felicemente smentito. Una carrellata di immagini, urbane ma non solo, racconta un’urgenza che sembrava superata dai tempi della pittura impressionista en plen air. L’uomo questa volta non c’entra – letteralmente parlando – e il paesaggio acquista centralità là dove pareva averla persa: l’umanità in apparenza esclusa è il fantasma che anima gli eleganti frammenti di orizzonti, luoghi e non luoghi, che hanno ufficialmente superato antropologiche categorie, in vista di una rinnovata lettura dello spazio, più sentita e meno viziata... ...La presenza umana, anche se per lo più negata nei quadri esposti, c’è; in alcuni casi solo accennata da un passante, da una gru all’orizzonte, da primitive apparizioni su sfondi avveniristici. La vitalità non è chiassosa, anzi si materializza nel silenzio… ...architetture dense e campite di città subito riconoscibili come italiane (Petrus, Ortona, Reggio)... ...La pittura, rinnovata nello stile e nel suo abecedario linguistico, torna a raccontare il mondo per immagini. E del mondo ripresenta la natura e la città con uno sguardo non più solo curioso, ma partecipe...
...The artist I most look forward to seeing in depth is Rome-based Giorgio Ortona. Represented here by five small oils on wood panels, Ortona produces tight, small notebook-page-size schemes of postwar architecture around Rome. Most feature blocky apartment houses from the 1960s and '70s. He paints them in a palette of blanched yellow and orange that seems to nearly obliterate the heaviness such buildings usually carry. Somehow cramped, rectilinear geometries end up feeling airy and Mediterranean...
Dal punto di vista dell'arte è possibile, per certi versi, che uno possa vivere molte vite: quelle del politico, del mistico, del letterato, del sociologo, del mitografo, del santo... Del diabolico, perché anche criminali ne abbiamo avuti. Sotto il raggio dell'arte, ti dici, sono consentite, anzi proprio incitate un'infinità di altre simulazioni, in Giorgio Ortona sonnecchiano un architetto, un topografo, un urbanista le cui facoltà non sono più quelle di operare, costruire, progettare, rilevare, o forse sono tutte queste cose insieme sintetizzate nel solitario piacere di contemplare. Che è un piacere isolatore, come quello di leggere, o di scrivere. Poi viene il dipingere, certo, ma intanto uno parte da qui, dal semplice guardare. L'uomo che guarda. E magari ti ricordi quel capolavoro di Nanni Moretti, "Caro Diario", dove il protagonista se ne andava in giro con il suo vespone per osservare in santa pace le facciate delle case di Roma. Le case dei suoi quartieri preferiti, le finestre, i portoni, i balconi, gli attici, me lo ricordo benissimo, perché uno che se ne va in giro in quel modo guarda in alto, ha il naso per aria, mica guarda giù, alla propria misura, insomma non ne vuole sapere di marciapiedi affollati né di facce umane, di tutte queste brutte facce voglio dire, dei gesti, delle voci. Per questo è prudente, si cautela, sceglie una domenica di agosto. E' il trionfo della città meno i suoi abitanti. Cioè meno la volgarità, la pesantezza, l'idiozia. Come Barthes, il quale godeva nel passeggiare per le vie di una città straniera, dove chi parla usa una lingua sconosciuta. Questo lo proteggeva. Anche in quel caso: la lingua, la forma, senza il suo contenuto. Solo suoni. Una sterminata chiacchiera priva di ricadute, conseguenze, minacce. La città che dipinge Ortona, puoi stringere gli occhi quanto vuoi, è davvero senza nessuno. Come se tra le sue strade fosse circolato l'ordine tassativo di una controra: tutti a casa, chiudete porte e persiane. Perché non è che questa città sia senza vita. Questo non lo puoi dire. La vita la intuisci perfettamente lì sotto, lì dentro, solo che non la vedi e non ti pesa. La senti scorrere, ma come sotto traccia, linfa sotto pelle. Il resto è solo architettura e luce., vita e morte delle forme, farsi e disfarsi di geometrie, microesistenze e mute peripezie di tetti, cornicioni, intonaci, mattoni. Ricavi un certo grado di purezza nell'essere così, il flaneur dell'inerte, di un mucchio di storie potenziali: "chi ci abita lì"? Con quale passione per l'esattezza, nella documentazione e nella resa, Ortona punta l'immagine, appostandosi simile a un cecchino, mettendo in evidenza quanto questo mondo di pietra sia mutevole. Vario, pieno di un'infinità di piccoli fenomeni, magari effimeri, di quelli che proprio durano un niente, come nella grande natura degli impressionisti. Intercetta minimi flash, movimenti di microscopiche ombre. Polveri. Non c'è finestra che, pur lontanissima, sia uguale all'altra, a quella che le sta a fianco, o sotto. Ortona non è un pittore astratto. Un agglomerato di case per lui non corrisponde ad un unico ideale formale ma ad una irradiazione di forze dal suolo. Eppure è evidente come questa ricchezza di dettagli sia il risultato di uno sguardo che punta allo scheletro della scena. Scorpora, spolpa, la visione. Un'aria di deserto soffia su questa Roma. Deserto ebraico, nordafricano. Città assetata. Se ci pensi, Probabilmente il desiderio di Giorgio è quello di discernere quale specie di macchinazione celi dentro di sè il caos. La sensazione è quella di un paesaggio sgranocchiato. Sgrattato qua e là, sgraffiato, corroso, eppure perfettamente, lucidamente intatto nella sua essenza. Scarnificato solo allo scopo di farne risultare lo scatto più interno, l' emanazione di un'energia vasta, anonima, impersonale. I quadri di Ortona trovano quel punto di equilibrio, traballante evitale, che c'è tra un pensiero costruttivo e l'azione che lo determina. Ecco una Roma molto simile, anche nella distorsione grandangolare, alla Madrid di Antonio Lopez Garcia, forse il più grande pittore vivente, a suo tempo maestro di Giorgio, tanto da ispirarne oggi anche l'esecuzione di queste figure, di questi formidabili ritratti, prove di un realismo accanito. E come nei quadri dello spagnolo, ecco qui l'esercizio di una messa a fuoco progressiva, mobile, spostata qua e là nella precisazione calibrata e nell'omissione semplificante. Focalizzazione diversificata che stabilisce il tempo della visione. Solo che per Lopez Garcia Madrid è stata un punto di arrivo, l'estrema tappa di un destino, di una vocazione tormentata. Per Giorgio, Roma è lo start di una corsa. L'inizio di una caccia. Questa non è una città antica, quella dalle falde più oscure. Nessuna gloria di tempi remoti. Nessun monumento o roba simile. Nemmeno una chiesa. E non è nemmeno la città moderna per eccellenza, quella da terzo millennio, gettata verso il futuro, non è mica una di quelle tecnocittà che si espandono nel vetro, puntando, come dita leggerissime e inumane, al cielo. Nulla del genere. Perché questa è una città di mezzo, anonima, normale, periferica, palazzinara perfino, simile a tante città mediterranee. Ne hai viste un sacco. E' la parte di Roma che è cresciuta tra gli anni Cinquanta e Sessanta attorno alla Tangenziale, a questo totem oggi venerato da molta giovane pittura romana, come un corpo attorno alla propria spina dorsale. Qui non c'è niente di eccezionale. In teoria non ci sarebbe niente da vedere. Ma allora perché ti agganci a scene così, che come per un risucchio escludono tutte le altre, a questa città spezzettata, ingrandita, moltiplicata nella rifrazione illimitata di se stessa?
...Il quartiere non ospita però solo giovani emergenti e manifestazioni
underground. Altri artisti, meno legati alle nuove tecnologie come Aurelio
Bulzatti e Giorgio Ortona abitano nei dintorni di piazza Vittorio. Non a
caso, i loro dipinti privilegeranno la parte romana che più di ogni altra
tendenza guarda alla poetica della periferia e del paesaggio urbano, altro
mainstream del ventennio preso in esame in questo libro.
Uno dei dipinti più belli e spettacolari di Giorgio Ortona è proprio un
grande paesaggio che descrive la zona delle labirintiche palazzine
costruite tra i quartieri periferici dello Scalo San Lorenzo, del
Tiburtino e del Prenestino, unite dalla grande strada sopraelevata che nel
quadro è assoluta protagonista.
Successivamente allo sgombero dell’ex pastificio Pantanella, situato nelle
immediate adiacenze, la tranquilla e anonima zona del Pigneto, già
ampiamente celebrata dal cinema neorealista, è diventata nel decennio
2000-2010 la sede preferita di giovani artisti che, a differenza di altri
luoghi della capitale, possono qui permettersi il lusso di affittare
abitazioni e studi a prezzi ancora modici. La struttura di questo raccolto
quartiere è rappresentata da case molto piccole e modeste, a uno o due
piani, per lo più costruite senza alcuna aderenza al piano regolatore
urbano e affastellate lungo strette strade a reticolo. Al Pigneto gli
studi dei tanti artisti, giovani e non, sono spesso su strada e non
riparati dagli sguardi i discreti dei passanti. Al pianterreno delle case
si trovano anche vecchie botteghe che non sembrano aver subito alcuna
sostanziale modifica dai tempi del dopoguerra, mentre i nuovi commercianti
senegalesi e cinesi offrono, oltre ai generi alimentari, anche una serie
di servizi che spaziano dalla ristorazione all’hammam, dalla sala massaggi
thai al pub multietnico. La dimensione è quello di uno strano pese
dilatato all’interno dell’orbita periferica della Capitale, il cui
fermento artistico lo ha fatto diventare la nuova Artist’ zone romana. A
via Braccio da Montone, già da prima dell’apertura della Pignetowhitecube
di londinese me1990-2010 VENT’ANNI D’ARTE A ROMA
moria, c’era da tempo lo studio spartano di Giorgio
Ortona,...
...Parisi, Scolamiero, Ortona, Isola, Falconieri, Bulzatti, Almagno,
Giovannoni, Pierfranceschi, Tulli, sono i testimoni di una ricerca che
vuole affermare la propria autoreferenzialità, fiera della non
omologazione e della non appartenen...
...Eppure il paesaggio di Roma, anche il più difficile, brutto e
inquinato, conserva il senso di una città che può essere ancora raccontata
senza che per questo diminuisca la portata del suo indubitabile fascino.
Le rovine e gli avanzi dei templi romani convivono con la devastazione
delle palazzine costruite selvaggiamente negli anni Cinquanta e Sessanta
lungo le vie consolari. E’ questa la Roma che è al centro della ricerca di
Giovanni Arcangeli, Massimo Campi, Roberto Falconieri, Alessandra
Giovannoni, Giorgio Ortona, Mauro Reggio...
...Giorgio Ortona guarda alla lezione di Antonio Lopez Garcia, che in
effetti è stato suo maestro all’Accademia di Belle Arti di Madrid, per
realizzare con accuratezza e sguardo a grandangolo alcune interessanti
vedute di Roma dall’alto. I soggetti di Ortona sono le palazzine dei nuovi
quartieri romani densi e popolosi: le costruzioni di sette piani e oltre,
nate nella zona del primo anello periferico. Le case dei quadri di Ortona
sono elementi muti di un alveare di abitazioni disposte su assi rettilinei
assimilabili a un nuovo labirinto urbano. In queste opere il brulichio
della vita quotidiana si intuisce appena e si perde nell’impotenza delle
tele che abbracciano a volo d’uccello intere zone della città, illuminate
da un sole accecante. Ortona ne descrive parallelamente anche gli
abitanti,colti nella loro espressione più crudamente autentica. Anziani
signori che si trascinano dolenti nei loro abiti casalinghi,, giovani
donne impegnate nei lavori domestici, operai e vecchi sono i nuovi eroi
della dura vita negli alveari metropolitani...
...Durante i sette anni di vita della d’AC, diretta da Licinia Mirabelli
con la cura artistica da parte di Lorenzo Canova e Tiziana D’Acchille, la
d’AC vede incrementare enormemente l’afflusso del pubblico romano e la
richiesta da parte degli artisti di esporvi. Le mostre si alternano al
ritmo di una al mese o poco meno. tra le esposizioni più significative, le
personali di alessandra Giovannoni, Matteo Basilè Tommaso Cascella, Botto
e Bruno, Pablo Echaurren, Vincenzo Scolamiero, Maurizio Pierfranceschi, la
mostra storica di Yu-Ichi, l’artista giapponese a cavallo tra calligrafia
ed espressionismo astratto Sandro Sanna, Giorgio Ortona, Roberto Mannino,
Massimo Campi, Stefania Fabrizi, Francesca Tulli e David Fagioli, Sauro
Cardinali, Massimo Cavenago e Tiziano Campi, Marina Bindella, Guido
Strazza, Federico Lombardo, Andrea Martinelli, Federico Guida, Omar
Galliani, Giacomo Costa, Andrea Volo, Aurelio balzati e molti altri
ancora.
La Galleria, nonostante la posizione ultraperiferica rispetto al centro di
roma, diviene ben presto l’alternativa per tutti quelli artisti, in gran
parte romani, che non trovano possibilità di esporre negli spazi pubblici
della Capitale, gestiti secondo logiche che spesso non tengono conto della
reale attività del territorio e degli artisti che vi operano...
La Galleria Gino Marotta partecipa alle manifestazioni del Giorno della Memoria del 2020 con una personale di Giorgio Ortona (Tripoli 1960, vive a Roma) in cui sono raccolte ventisei opere sulla Shoah, a cui fa riferimento il titolo di questa mostra dedicata alla persecuzione dei diritti e delle vite degli ebrei durante il fascismo, ai campi di sterminio nazisti, al Porrajmos, alla trasmissione della memoria e alle inquietanti recrudescenze del nazismo nell’Europa dei nostri giorni. Ortona, pur avendo vissuto personalmente la persecuzione degli ebrei in Libia, da cui è fuggito con la famiglia nel 1967, ha lavorato sulla tragedia della Shoah con un linguaggio rigoroso e con l’oggettività di una ricerca storica fondata sui documenti, attraverso una pittura che ingloba le esperienze concettuali e da cui nascono opere di drammatica e lancinante chiarezza. Il realismo di Ortona, formato su quello del suo grande maestro, lo spagnolo Antonio López García, diventa così uno strumento incisivo di riflessione, di salvezza e di disseminazione della Memoria, grazie al quale viene conservata e tramandata la verità storica di fatti e il ricordo di uomini che rischierebbero di essere dimenticati, come Emanuele Di Porto, salvato dai tranvieri di Roma il 16 ottobre 1943, o come il pugile sinti Johann Trollman ucciso in un campo di sterminio nel 1944. Le pietre d’inciampo di Gunter Demnig, i documenti dei perseguitati e dei deportati, gli oggetti personali delle vittime dei lager, le bocche dei forni crematori, le prime pagine dei giornali che esaltavano le Leggi Razziali del 1938, il campione ciclista Gino Bartali (Giusto tra le Nazioni che ha salvato molti ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale), vengono fissati così da Ortona in dipinti che costruiscono una forte testimonianza costruita con un’intensa e sintetica evidenza che unisce la potenza iconica alle cesure, le cancellazioni alla cruda e sintetica qualità della rappresentazione.
Roma. Pigneto. Via Braccio da Montone: davanti a noi un edificio basso,
al primo piano ecco lo studio di Giorgio Ortona, immerso in un quartiere
che stigmatizza pregi e difetti di una città complessa, favolosa per
evidenze ma decadente per attitudine; una metropoli che al Pigneto
intreccia edilizia mista e creatività, nodo multietnico e vita notturna,
proletariato e terziario tecnologico di nuova generazione. Da qui, tra
Casilina e Prenestina, parte uno sguardo d’autore con la filosofia del
drone: altezze a campo aperto per una visione concentrica e lenticolare
della Roma moderna, palazzinara, commerciale, dissonante, cementizia,
popolosa… Giorgio Ortona dipinge non solo ciò che vede ma ciò che gli
occhi odorano, ciò che le orecchie assaggiano, ciò che la bocca ascolta…
un’apparente contraddizione dei sensi, specchio veritiero di un pennello
che il contrasto semantico lo risolve al suo interno: pittura sporca
eppure chirurgica, brulicante ma asciutta, realistica e al contempo
mentale. Una pittura di contrasti sanati, dove lo stesso telaio di legno
grezzo, pur imitando il pallet da cantiere, si trasforma in un
distanziatore dalla perfetta calibratura. Una contraddizione che si
risolve anche nei fondali: si intravedono linee, numeri e tacche che
palesano la natura architettonica della tavola, come se il fondo fosse la
cellulosa su cui l’autore progetta le visioni. Qui esce fuori l’anima
d’architetto, il passato universitario e la disposizione mentale; emerge
l’angolo di sguardo che certifica un imprinting ma anche il suo
cortocircuito per merito di un linguaggio, la pittura, che ridefinisce il
sentimento profondo dell’architettare.
La pittura è l’architettura abitabile degli spazi interiori
La Roma di Giorgio Ortona diventa matrice e codice genetico, genoma
figurativo che attraversa molteplici luoghi di ambito novecentista. Non
pensiate, però, alla solita Capitale da periferia disfatta; qui, al
contrario, si raccontano la bella edilizia popolare anni Sessanta, certe
facciate umbertine tra Esquilino e Colle Oppio, alcuni capolavori
residenziali in Prati e San Giovanni, tanti palazzi monolitici che ben
s’inseriscono nel contesto urbano, spesso tra tangenziali a serpente,
sopraelevate, raccordi e strisce d’asfalto. Ortona mappa l’urbe capitolina
tra tetti e antenne, balconi e verde pubblico, crea geografie di cemento
armato, esalta il cantiere con il corredo d’impalcature e gru svettanti…
verrebbe da dire: da tempo Roma non era così “romana” in un quadro; viene
da aggiungere: una Roma tanto minuziosa da rendersi universale, archetipo
di qualsiasi luogo cresciuto per incroci meticci, scambi culturali,
energia collettiva, potere politico e investimento economico. La Roma di
Ortona è anche la città dei volti amati, dei corpi affini, degli oggetti
sensibili che catturano la sua fiducia emotiva. E’ un mondo di affetti e
sensazioni vive, un legame vigile con la prosa del quotidiano: la città al
di fuori, le persone e gli oggetti negli appartamenti, sui terrazzi,
davanti ad una porta, dentro un negozio, in piedi per strada, dovunque il
corpo, un cibo o un oggetto siano integrazioni biologiche della città
pulsante. Lo stesso autoritratto, oggi esposto con alcune varianti,
coinvolge magliette o giubbotti che l’autore, dileguatosi nel bianco
pittorico, indossava al momento della foto, offrendoci così un ritratto
per assenze, per evocazioni urbane, per rumori di fondo. L’immaginario
urbano di Ortona nasce dall’alto, attraverso le immagini panoramiche di
Google Earth. Da qui la creazione di una griglia pittorica in cui il
realismo si affianca alle cancellature di colore, alle assenze evocate,
alle dissolvenze improvvise. Scompaiono le zone che non meritavano
celebrazione, che stridevano nel contesto, che inquinavano l’occhio
architettonico di Ortona. Assenze solo apparenti che si trasformano in
fasce di colore, richiamando Nicolas De Staël e Alberto Burri,
elettrificando la pittura con volumi astratti, tanto plastici da fondersi
con la città reale. Ad accompagnare i quadri ci sarà Storie di Pittura, un
video che racconta l’artista nei suoi spazi di vita e lavoro. Un’appendice
che tira le somme narrative di un viaggio unico nella città che non dorme,
nei quartieri ad alta temperatura umana, nei mondi privati di un artista
che architetta, giorno per giorno, le sue stanze interiori. Il video è
stato realizzato da Sintesi Visiva. Come direbbe qualcuno che passeggia
per il Pigneto: “Davvero FICO sto quadro de Ortona…”
F.I.C.O. ovvero, Feticci Individui Case Oggetti
FETICCI
Una prosa senza enfasi, orientata su ciò che è puramente consumato dal
tempo, sul mondo semplice che diviene speciale nell’occhio di chi guarda e
metabolizza la realtà. Ortona sceglie la crudezza spontanea ed evoca quei
fatti metabolizzati ogni giorno, brandelli che lo attraversano mentre
affronta il ventre urbano, la risacca domestica, i marosi emotivi, le onde
intime. Gli obiettivi del suo osservare mutano in feticci d’improvvisa
dignità e rilucente bellezza, grezzi e ossei eppure muscolari per
resistenza elastica. Rimane vivo il loro crudo realismo ma sale il pathos
espressivo, cresce un’aura che focalizza un quid in mezzo al flusso
anonimo del popolo. Da qui si comprende l’intuizione della cancellatura,
l’ombra di colore che ricrea fantasmi o tracce di scena, portando lo
sguardo dove l’immagine non cela, rivelando la radice delle stesse
assenze, aumentando la rilucenza del tessuto complessivo. Le zone
soppresse restano presenze senza definizione ma con lo stesso ingombro
originario, ed emanano una pulsazione sottotraccia, una convergenza tra
evidenza e nascondimento. La cancellatura come fossile pittorico di un
tempo lungamente presente.
INDIVIDUI
Legami di sangue, nodi sentimentali, amicizie: Ortona racconta le
connessioni intime, i valori fondativi, le persone che occupano un posto
nel suo universo interiore. Ci descrive figure con una storia condivisa
dentro l’umana geografia; osserva con approccio alla Diane Arbus, solidale
con la fisionomia in scena, con l’involontaria energia scenica degli amati
soggetti. I suoi ritratti sono persone normali dentro luoghi normali, così
come le pose mantengono l’imbarazzo, la semplicità, il realismo, la
caducità di un tempo che incide la pelle, i lineamenti, gli sguardi.
L’universo umano di Ortona passa per balconi, terrazze condominiali,
interni domestici anonimi, spiagge popolari… altre volte lo sguardo
cattura rugbisti, ginnasti, ciclisti e altri sportivi che rappresentano
quella fatidica “storia” dentro l’umana geografia… ad accomunare le
differenze è il volume costante dell’occhio pittorico, un approccio che
non fa differenze di estrazione sociale, che non intellettualizza pur
agendo da una radice concettuale. Vista interiore da dodici decimi per una
grande pittura che bilancia le distanze su una medesima temperatura della
luce (reale e interiore).
CASE
Le molteplici tipologie abitative fanno la panoramica aerea su una Roma
moderna e intonacata, meticcia per natura, controversa ed eterogenea ma
armonica nel suo espandersi. Una città ad alta entropia che dimostra
l’equilibrio dentro il caos apparente, tanto nel suo tessuto storico
quanto nel suo sviluppo oltre le mura romane, sulle rotte delle antiche
strade consolari, dentro il Raccordo Anulare ma lontano dalla pietra del
centro storico. Le case di Ortona sono il ventre caldo della città, la
visuale aperta che si porta appresso la memoria di Elio Petri e Francesco
Rosi, gli echi di Ennio Flaiano e Pier Paolo Pasolini. Percepisci i rumori
metallici, le gomme sull’asfalto, il caos pedonale, i cantieri aperti, le
buste che sbattono, le voci mescolate… si capisce che esiste un organismo
urbano in ebollizione eppure tutto sembra raccolto dentro un ordine
matematico, dentro uno sguardo che ama gli ordini seriali delle finestre,
il rigore armonico di terrazzi e balconi, le giraffe meccaniche delle gru
da cantiere, le linee filanti dei muri perimetrali…
OGGETTI
Anche le cose inanimate si regolano con la stessa temperatura che avvolge
i corpi e gli edifici. Che si tratti del suo amato basso elettrico, dei
sacchi da cantiere su pavimenti umbertini (Ortona vive in un appartamento
nella zona tra Piazza Vittorio e Santa Maria Maggiore, cuore
dell’architettura umbertina in città), di frutti tagliati, di una dentiera
o di un tubetto di pittura, assistiamo ad una visione lineare e coerente,
capace di raccontare i soggetti e gli oggetti con un rispetto, una
passione, un sentimento che non concede spazio alla retorica. Ciò che
viene scelto assume la massima enfasi istantanea, si prende il centro
senza annullare il contesto, ricavando un’intensità dallo scenario che
somiglia alle inquadrature del miglior Fassibinder. Tutto merito di un
artista che fissa l’istante e ne ricava unicità preziosa, dando qualità
minerale ai suoi fossili del presente, a quei feticci dal cuore caldo e
dalla memoria pulsante. Gli oggetti di Giorgio Ortona sono protesi vive di
uno sguardo amorevole che abbraccia la normalità del presente.
...Vi sono, quindi, opere di stretto valore vedutistico, secondo la nuova tradizione del genere rinnovato, come nel caso di artisti quali Andrea Aquilanti, Daniele Galliano, Federico Guida, Giorgio Ortona, Mauro Reggio. Si tratta di impostazioni sceniche che mimano solo in apparenza l'impostazione naturalistica, dando poi, a lettura maggiormente approfondita, indicazioni che inevitabilmente riconducono all'attualità dei linguaggi pittorici contemporanei. Infatti, e innanzitutto, risulta ben evidente l'origine fotografica del loro comporre, la temperie antinaturalistica del trattamento tecnico e cromatico, l'esibizione voluta e leggibile di una asciuttezza del disegno. Le vedute sono quelle che sono: Santa Maria Maggiore, dalla parte absidale, a completamento dei lavori di ristrutturazione della piazza antistante, nell’opera di Aquilani; il cantiere stradale nel tratto che separa, a ridosso di mura, Porta Maggiore da San Giovanni, nell’opera di Galliano; la Fontana dei Fiumi a Piazza Navona, in Federico Guida; una veduta panoramica, a volo d’uccello, sulla sopraelevata e verso l’ex pastificio Panzanella, in Giorgio Ortona; il cantiere dei Fori Romani, al disotto del Campidoglio e del Vittoriano, dalla parte dell’Arce Capitolina, in Mauro Reggio. Ma la resa pittorica ha fissato l’intento della propria ricerca in base a un altro punto di vista: la coscienza del luogo è trasmessa, in realtà, per il mezzo di un tradimento tanto più inquietante, in quanto non flagrante.
...Proprio per documentare questo difficile passaggio tra la Roma del passato e quella del futuro è nata la mostra Cantieri Romani, ideata da Arnaldo Romani Brizzi, che si propone appunto di eternare il periodo dei cantieri precedente all’apertura del Giubileo con venti opere firmate da artisti contemporanei di diverse generazioni, dai grandi maestri ai giovanissimi, che vanno ad aggiungersi ai dipinti “storici” già di proprietà della Galleria Comunale d’Arte Moderna, e che hanno documentato, grazie al talento di artisti come Mario Mafai, o Afro (tanto per citarne alcuni), i cantieri delle demolizioni aperti negli anni Trenta per far nascere arterie come via dell’Impero (poi via dei Fori Imperiali) o via della Conciliazione. Insieme ad Arnaldo Romani Brizzi abbiamo scelto venti artisti, invitati ad interpretare i grandi cantieri del Giubileo, ognuno con il proprio sguardo. Così, i pennelli visionari dei migliori rappresentanti della figurazione italiana (Bertocci, Di Stasio, Fiorentino, Gandolfi, Guida, Livadiotti, Ortona, Pignatelli, Reggio e Tulli) hanno descritto con un pizzico di fantasia e una sana ventata di simbolismo una Roma metafisica e surreale...
...Raffronto quest’ultimo che potrebbe essere ancor più utile per toccare e capire il Cantiere (2011) di Giorgio Ortona. Niente di meno simile, eppure tanto, tantissimo di filogenetico, come se Ortona quelle carte di Piranesi le avesse strappate, lasciandole per mesi sotto l’acqua piovana di un’astrazione postcubista e razionale, sotto il giallo di magnesio di una pittura fotografata e materica...
...Allievo del maestro spagnolo Antonio Lopez Garcia e formato in seri studi di architettura, era naturale che Giorgio Ortona dedicasse gran parte dei suoi dipinti alle inquadrature urbane. La Roma di Ortona non ha però nulla di turistico, di pittoresco, di estetizzante; al pittore stanno a cuore inquadrature del semicentro e della periferia, con un gusto cromatico che si è andato, via via, rassodando, e animato dall'aspirazione a portare, mediante la pittura, ordine nel disordine dlla quotidianità...
...Giorgio Ortona è un pittore che ha alle spalle una laurea in architettura e un attento esercizio del disegno e rilievo dei monumenti; vale a dire, che in lui l’interesse tematico per l’edificio e la città ha radici ben solide. Anzi, ai limiti della passione esclusiva: basti pensare che molte delle nature morte che egli affianca alle inquadrature urbane hanno per soggetto sacchi di cemento, di gesso o di pozzolana: inconfondibili materiali da costruzione. Si aggiunge il fatto che Ortona è stato anche allievo in Spagna di Antonio Lopez Garcia, il più noto degli iperrealisti iberici, che, in grandi dipinti su tavola, dipinge inquadrature urbane di semicentro e periferie con fantasmagorico virtuosismo. Sono appunto queste le esperienze ispiratrici del lavoro di Ortona, delle sue inquadrature della periferia romana (non però, in genere, di quella estrema, come nelle tele di Massimo Campi o di altri nuovi paesaggisti urbani), tra Tiburtina, Prenestina e Casilina, in prossimità della loro divaricazione poco oltre il “nodo” di Porta Maggiore: quella che fu un tempo – un tempo che appare oggi remotissimo, quasi favoloso – la periferia pasoliniana. Inquadrature che denunciano spesso l’emergenza formale – che equivale pure all’inserimento del dipinto in coordinate cronologiche – del grande parallelepipedo dell’ex pastificio Pantanella in ristrutturazione, affiancato dalle gru. Scenari, anche questi, disertati da presenze umane, anzi perfino privi di automobili: e suscita realmente un’impressione di irreale pietrificazione, poniamo (cito uno dei dipinti più significativi e spettacolari dell’artista: Cantiere Pantanella, del 1999), osservare il groviglio dei viadotti della Sopraelevata – sempre concitati di traffico nella realtà quotidiana – vuoti e silenziosi; e sotto il deposito dell’ATAC, con gli autobus affiancati ed inerti...
Negli ultimi anni gli artisti che hanno incentrato la propria ricerca sul racconto di una realtà urbana sono stati numerosi, e molti di essi discendono, per così dire, da un filone privilegiato che dal settecento in avanti, mi sia lecito questo estremo spostamento indietro, ha conferito dignità di soggetto artistico anche al dettaglio minimo appartenente alla realtà quotidiana e inserito all’interno di un vero e proprio paesaggio. Questo rivolgimento di attenzione acquista maggiore forza e assume le caratteristiche di un vero e proprio genere nel momento storico in cui emerge appieno la crisi dell’arte aulica, di corte, che abbandona in parte le celebrazioni ufficiali e lascia spazio al racconto dell’uomo contemporaneo, dei suoi limiti e dei suoi enigmi, accompagnato da irrisolte questioni esistenziali e tuttavia ancora grande. Dal momento in cui la pittura ha contemplato l’idea di realizzare dei racconti visivi in cui il protagonista fosse soltanto l’uomo e la sua vita quotidiana, anche la meno nobile, abbiamo quindi assistito alla crisi dei linguaggi, alla disputa talvolta acre e impietosa delle avanguardie, ma mai al definitivo abbandono di questa predilezione per l’universo minimo della quotidianità. Mi piace pensare che il racconto della realtà urbana proposto da Giorgio Ortona nei suoi lavori possa discendere da una tradizione centenaria, sebbene esso trovi la sua collocazione privilegiata all’interno di una fascia di artisti che nello specifico dai primi anni trenta in avanti hanno letteralmente creato un nuovo scenario urbano e umano. Il racconto di Ortona è lucido e tagliente, inquadra un mondo di personaggi fissati al quadro da una luce sempre intensa e abbacinante, come pure una sequenza di quartieri romani visti dall’alto che hanno tutta la potenza espressiva di un cinemascope. I quartieri che ritroviamo ancora una volta sulle tavole sono però ormai lontani dalle immagini cui ci avevano abituato Mafai, Scipione, Melli e poi Vespignani: lontani ormai da quella umanizzazione e poesia del paesaggio urbano tanto cara alla scuola romana, gli scorci urbani di Ortona hanno le forme e i colori di una contemporaneità che sembra averci ipnotizzati e annichiliti con la sua stessa imponenza e il suo irrimediabile disordine, identificandosi sempre più nella metropoli labirintica che lo stesso artista avvicina ambiziosamente ai cretti di Burri. E’ una Roma svuotata di rumore e di caos, in cui l’estetica delle palazzine e dei colori, lontana da ogni idea razionale di piano regolatore, assume i contorni di una forma archetipica, di un labirinto in cui perdersi con la vista per ritrovare poi un filo, una traccia di identità. In questa esperienza pittorica che somiglia sempre più a un viaggio iniziatico l’insito ordine di Ortona contagia però anche la città con le sue asimmetrie e i suoi suburbi assolutamente confusi e architettonicamente ai limiti dell’illeggibile. Gli interni, le figure, gli scorci e i paesaggi appaiono quindi ritagliati da un grande bisturi che ne delinea i contorni sulla sottile punta di matita e ne definisce i colori secondo una tavolozza estremamente pulita e nitida. La vitalità che si esprime nel disordine lo affascina, lo seduce, ma contemporaneamente ne è spaventato, ha bisogno di allontanarsi momentaneamente per poterla registrare sul suo taccuino personale. La strumentazione tecnica dell’architetto Ortona è il mezzo attraverso cui egli ordina, misura, annota il mondo circostante: come i primi scopritori di piante o specie animali riportavano sui loro notes con accurata meticolosità ciò che andavano per la prima volta scoprendo del mondo, così Ortona raccoglie nell’universo pittorico gli oggetti del “suo” mondo. Ma non si tratta soltanto di un occhio clinico, catalogatore, bensì di un occhio partecipe, indagatore che riesce a superare il vuoto che c’è tra la mera sensazione, che pure è la prima modalità di percezione della realtà, e il sentimento, ovvero l’adesione profonda all’oggetto ritratto. Da queste opere traspare quindi, oltre all’annotazione particolareggiata di tutti gli elementi presenti nello spettro visivo, anche un vero e proprio amore per quello che lo sguardo riesce a coprire, come se la realtà potesse prendere effettivamente forma solo dopo un’attenta decodifica. E’ un amore per la catalogazione, primo motore di ogni quadro, amore per il paesaggio urbano, per la chitarra Fender, amore per la figura del padre scomparso: un elemento solo apparentemente in contraddizione con la lucidità estrema dello sguardo, ma che accomuna con tutta evidenza le opere in mostra. I paesaggi romani, reali e virtuali al tempo stesso, dall’idea del vedutismo subito si allontanano per diventare organismi quasi viventi, in cui cromie, luci e ombre si affastellano e si inseguono, disegnando una vista dall’alto che scruta la città, ne ascolta il battito, ma prudentemente se ne tiene a debita distanza, una distanza di sicurezza, per così dire. Al di là della pittura, cosa ci regala il lavoro di Giorgio Ortona? Una cosa che non ha prezzo, ci ricorda la differenza che passa tra guardare e vedere, tra l’attenzione distratta che riserviamo spesso a ciò che ci circonda e l’infinita bellezza che invece si nasconde nelle pieghe delle “cose”, quando queste cose sono “abbracciate” dal nostro sguardo, a volte pudico, timoroso, ma in realtà pieno di affetto, di compassione.
...E' una della tendenze caratteristiche della pittura degli ultimi anni, che soprattutto a Roma annovera un numero sempre crescente di validi artisti: si tratta del cosiddetto "realismo urbano", ovvero di un'arte pittorica solidamente ancorata a un impianto figurativo e che cerca ispirazione nei paesaggi periferici, nell'architettura della città moderna e non necessariamente monumentale: antenne, garage, condomini, automobili, vedute prospettiche e saggi di figura... ...si tratta di Massimo Campi e Giorgio Ortona, bravi nell'interpretare la poesia delle cose tristi che si cela nel paesaggio contemporaneo ed entrambi sorretti da una buona tecnica...
...Ortona rivolge la sua attenzione alla città, allo spazio urbano dipinto con leggerezza in una luce delicata, con campiture che si organizzano a tarsia: i suoi sono frammenti urbani contemporanei, quelli delle periferie, della vita "normale" di tutti i giorni; all'artista il compito di cogliere la verità del proprio tempo...
...La sfida della miglior ritrattistica di oggi è tirar fuori l'anima dal corpo, rendere palese e conosciuto ciò che invece spesso è nascosto. Ovviamente, diversi e lontani tra loro sono i nomi per farlo. Se la scuola pittorica siciliana - da Alvarez a Sarnari, da Floridia a Zuccaro, da Colombo a Puglisi - punta spesso l'attenzione anche sull'ambiente che circonda gli uomini, per riuscire a evidenziare addirittura l'anima della terra, lo spirito e il carattere che contraddistinguono la gente di un determinato luogo, la lezione dei romani - veri e d'adozione, come Tornabuoni, Ortona, Janson e Pedro Cano - insegna a puntare sulla storia e sulla citazione. Gli isolani proiettano nelle atmosfere dei luoghi gli stati d’animo dei personaggi, la loro indole, mentre i pittori della capitale giocano con il passato, chiamano in causa antichi maestri per suggerire che, anche per quanto riguarda l’anima, tutto passa e ritorna. Nelle figure attuali cercano e scoprono gli atteggiamenti delle donne di Vermeer, delle figure del Novecento, dei vizzosi e monumentali nudi barocchi, per far capire che l’anima di un uomo altro non è che il suo passato, il passato della sua gente, gli eventi e le vicende che il suo Dna gli ha tramandato senza che lui se ne renda conto...
Una strada tangenziale taglia indifferente un intero quartiere abitato. Poche palazzine popolari si affacciano su una striscia d'asfalto, scura e deserta. Le terrazze e i tetti di decine di edifici scarni, simili gli uni agli altri, si perdono fino all'orizzonte. Un'altra gru sovrasta il guard rail in primo piano di una circonvallazione. Sono i paesaggi di Giorgio Ortona dedicati alla periferia romana...…Un viaggio realista attraverso gli squarci di una periferia segnata da capannoni, cantieri, strade larghe e vuote. Una visione cinematografica dei quartieri ai margini della città, che il giallo, l’arancione il celeste dei colori ad olio ritraggono nella loro quotidiana bellezza...
...Così come Roma è protagonista, quasi sempre, dei quadri di Giorgio Ortona, pittore dalla forte carica gestuale e dal ritmo incalzante, che opera una sorta di frammentazione continua del paesaggio urbano in vista di una ridefinizione delle sue coordinate di base, sulla base di una forte soggettività emozionale. Il paesaggio di Ortona non è mai oggettivo, ma ricostruito secondo punti di vista inconsueti, reinventati, sovrapposti, secondo armonie e disarmonie spaziali di grande intensità emotiva, con una pittura vibrante, fatta di scarti improvvisi, di cancellature, di abrasioni e ripensamenti che riallacciano il pittore alla miglior tradizione espressionistica europea...
La pittura di Giorgio Ortona è profondamente legata alla rappresentazione della città, e in particolare all’immagine di una certa Roma, della cui periferia storica, delle zone narrate e filmate da Pasolini e Rossellini, il pittore è riuscito a condensare il nucleo antico di intonaco, di asfalto e di calore, il chiarore denso e impastato che fonde i palazzi e le strade in un manto polveroso di luce. Ortona, tuttavia, dipinge la città anche quando sembra raffigurare altro, quando si concentra sulle sue figure erette come torri e rinchiuse nelle stanze e negli interni, ritratte in altri momenti sulle terrazze aperte sul cielo e sulle vie della grande metropoli, o quando sceglie per le sue nature morte i sacchi di quel cemento che serve per dare una forma e un corpo tangibile alle case, ai balconi e ai cortili. Si potrebbe credere che l’artista utilizzi questi temi grazie alla sua solida formazione di architetto, ma si potrebbe pensare altresì che la stessa scelta degli studi di architettura è stata presa dall’autore per dare maggior peso e concretezza alla sua attitudine interiore e al suo amore per la città. Ortona, dunque, è il pittore delle grandi vedute di Roma e di Napoli in cinemascope, dei nuovi vicoli partenopei, della Pantanella e della sopraelevata della capitale, della città che si attorciglia come un serpente alle pendici di Monte Mario, dei ritratti dolenti di un padre nella sua quotidiana intimità, dei sacchi dipinti come frutti rigogliosi di una natura morta seicentesca. In qualche modo, il pittore è un testimone delle metamorfosi urbane, dei cambiamenti, dei problemi e dei miglioramenti della metropoli, grazie ad uno sguardo che si è fissato ripetutamente su alcuni luoghi che nel corso degli anni hanno cambiato radicalmente faccia e ambiente sociale, come è accaduto all’area che gravita intorno al quartiere del Pigneto, dove il pittore ha il suo studio, e che Ortona ha spesso raffigurato nei suoi quadri “documentando” la storia recente di una zona che (da Roma città aperta in poi) rappresenta un centro importante per l’iconografia della Roma contemporanea. Ortona ottiene questi risultati grazie alla sua peculiare capacità pittorica e disegnativa, alla particolare qualità della sua stesura cromatica che riesce a modulare la severità prospettica e architettonica ad una pennellata sottile e palpitante, ad una grumosità accesa da un fremito che infonde una vibrazione vitale ai particolari degli edifici, alle sezioni dei mobili, alla fissità dei corpi colti nell’immobilità astraente di un momento quasi fuori dal tempo. Il viaggio dell’artista è però recentemente giunto ad una svolta, ad un punto cruciale di trasformazione che vede la sua opera sospesa tra una figurazione rigorosa e ineccepibile e la sua possibile negazione, tra la tentazione di riprodurre la realtà attraverso una rappresentazione minuziosa e inflessibile e la volontà di ricordare allo spettatore che la pittura è sempre una parafrasi concettuale di quello che ci appare. Ortona intende forse mescolare la sua solidità iconica, la sua visione analitica e quasi lenticolare, la minuziosità da camera ottica del progettista (e del vedutista) ad un senso di incertezza e, talvolta, di disfacimento, ad una sorta di insidia, un virus scelto dal pittore per stravolgere tutti i risultati acquisiti all’interno del suo sistema figurativo. Le grandi prospettive metropolitane, le scene negli interni e gli stessi autoritratti dell’artista subiscono così dei cortocircuiti improvvisi, denunciano la presenza incongrua di elementi che si insinuano nel tessuto delle immagini, ne interrompono la fluidità, alterano il loro scorrimento e aboliscono la loro plausibilità visiva generando un sentimento di incertezza, un allarme strisciante che mette in guardia lo spettatore dalle sicurezze della percezione e della coscienza. Ortona, a tal fine, utilizza cancellazioni e inserti geometrici, rettangoli, macchie e sovrapposizioni concepiti forse come “filtri” tra lo spazio “fittizio” del dipinto e il nostro mondo, come un’intersezione temporale tra la figurazione e la nostra visione, sospesa volutamente dall’artista in una condizione di dubbio e di crisi latente. Il supporto della pittura diviene così il terreno per un’analisi serrata dei meccanismi linguistici della riconoscibilità, in una rappresentazione sospesa che lascia allo spettatore il compito di ricomporre e completare il volto interrotto dell’immagine, il mosaico composito e difforme di una città che la pittura di Giorgio Ortona riesce a rivelare nel suo corpo vitale, nella sua essenza che la rende il centro e il terreno di scontro delle mutazioni della contemporaneità.
...Fluttuando fra le architetture nude di Petrus e gli edifici severi di Mauro Reggio, s'incontrano le periferie polverose di Giorgio Ortona, che è bravissimo nel distillare ovunque silenzio e ansietà. Dalla dimensione pubblica a quella privata, il percorso approda al concetto di metropoli come luogo degli incontri, della solitudine, della follia e dell'amore molesto...
Giorgio Ortona L'opera di Giorgio Ortona, artista ebreo, Senza titolo (2013) mette in mostra cinque internati di un lager, riconoscibili dall'uniforme a strisce, appartenenti al gruppo degli asociali (hanno il triangolo nero), coloro i quali appunto costituivano una minaccia ai valori ideologici della famiglia nazista. Con il triangolo nero, furono contrassegnati nei lager psicotici, i senza tetto, gli alcolisti, i fannulloni, le prostitute, gli anarchici e le lesbiche.' Ben presto anche i così detti "zingari" (Sinti e Rom) ricevettero lo stesso triangolo. Ortona traccia uno scenario umano in bilico - per quel triangolo tra passato e presente, segnalando in quel frangente l'amara concomitanza tra disprezzo nazista, per quelle categorie, con il medesimo disprezzo, ancora presente, nelle nostre società. Le figure dell'opera sono rivolte verso lo spettatore, interrogandolo da una mostra in memoria della Shoah sul senso della Storia, che va abbracciata tutta, altrimenti "ricordare" si trasforma in un vacuo esercizio. Insistendo sull'opera, due figure tra le presenti continuano a colpirci: le due centrali, realizzate in modo particolareggiato. Una porta un paio di occhiali e sorregge con un braccio, quasi a sostenerlo anche psicologicamente, il compagno alla propria destra. Tanto più lo sostiene, tanto più ci pare un manifesto della dignità umana, sotto gli occhi dello spettatore, davanti all'opera. Sia sopravvissuti allo strenuo nel momento della Liberazione davanti ai loro liberatori, sia in rassegna per gli aguzzini durante una selezione degli abili sugli inabili, sia scherniti oggi in categorie stigmatizzate nelle nostre società essi, proprio in quella diade sorreggere - sorretti, si pongono come resistenti in nome di un principio alto e indistruttibile: la dignità umana, che resta in piedi e a testa alta a dispetto di ogni violenza, umiliazione e razzismo. Il ponte tra passato e presente occupa una percentuale di rilievo nel bilancio generale sulla produzione d'arte della contemporaneità in riferimento alla Shoah. Non si tratta di paralleli morali, che spesso sono incresciosi e grossolani e per questo inutili nel sovrapporre la Shoah a fatti di estrema brutalità del presente. Si tratta invece, come in Giorgio Ortona, di mettere in luce la continuità dei meccanismi mentali del passato ancora in perfetta salute nel presente, passivi di fronte agli annosi pregiudizi e a nuove violenze, se non forieri di tali pregiudizi e violenze, sebbene la Shoah si commemori Ogni società ha stabilito le sue regole e in nome di esse ha giustificato atti terrificanti, per fortuna i processi dialettici dell'arte, tesi al dialogo anche forte, hanno attraversato quei periodi memori del vissuto. I sopravvissuti ci sono riusciti, pur nella difficoltà di trovare formule esplicative. Ci possiamo riuscire anche attraverso gli artisti empatici. Chi visita un campo di concentramento o ascolta il racconto di un testimone, chi vede un documentario sul tema, accetta di correre il rischio: rimanere afflitto e affezionato. Un effetto che può avere mille differenti fenomenologie, tranne quella del dolore delle vittime. E piuttosto farsi carico di quel dolore per trasmetterlo. Da questa empatia può nascere, in senso di rispetto e riflessione, un'opera d'arte. Un regista empatico, Steven Spielberg, vinse l'Oscar per Schindler's List (1993), l'avvincente e triste storia di Oscar Schindler e degli ebrei che riuscì a salvare, nella Cracovia occupata dai nazisti. Spielberg ci fa ben comprendere che l'arte è scappatoia all'oblio. Il tempo cancella purtroppo tutto, e noi dobbiamo riuscire a combattere il suo effetto più devastante - spesso indotto ovvero la dimenticanza. La memoria deve potersi appoggiare agli artisti empatici non per conferme ma per rielaborazioni mature sull'Olocausto. La rielaborazione, appunto, può servire al riferimento storico, aprendo fronti peculiari su un ampio orizzonte, non in virtù di paragoni, come detto, ma di confronti. Sarà meglio incominciare ad accettare come arte della memoria anche quella degli empatici, di una memoria non diretta, e non per questo da deprezzare. Anzi il suo merito è di essere frutto di comprensione da parte artistica di un tema nodoso e difficile. Vi è un altro fattore pro empatici: la lettura del passato e la sua interpretazione con gli strumenti acquisiti dalla conoscenza storica degli avvenimenti narrati. La storiografia, infatti, si apre di continuo a nuove ipotesi, per confermarle se corroborate da documentazioni incontrovertibili. Conoscere meglio il passato, perché ci aiuta nel presente? Perché ci fornisce nuovi strumenti analitici, evolutivi e sociali, nel confronto con pagine storiche spesso fin troppo affini alla contemporaneità. Analisi e comprensione possono dunque diventare strumenti fortemente didattici, nell'interpretazione; che in arte diventa opera, affermazione di un principio. Siamo nel terreno fertile della dialettica. Gli artisti che si opposero ai nazionalismi negli anni ancora precedenti al primo conflitto mondiale, su che cosa basarono le fastidiose premonizioni che trovarono forma in quelle visioni confuse e claustrofobiche dello spazio espressionista? Si basarono sull'esperienza di schemi storici precedenti, forniti dall'analisi, uniti alla tecnologia nascente pubblicizzata come miracolosa, portati con finezza espressiva alle estreme conseguenze. Un allarmismo profetico, che come si vedrà nell'appendice di questo volume, non ha tardato a inverarsi. L'arte sta così tra certezze e premonizioni, poiché non si basa che su originali filosoficamente ed empiricamente ricostruiti, e messi in corsa su strade non brevettate, sotto gli occhi di tutti Gli empatici sono coloro che non vogliono dimenticare l'esperienza vissuta da altri individui come loro, ma in un'epoca precedente. Auschwitz è un comune evento storico tragico, che s'impone come autocoscienza per la contemporaneità, in un processo di umana umiltà.
...Ma è ancora la visione della città, di Roma e delle sue periferie, che unisce Pasolini alle nuove generazioni di artisti e di registi: la relazione affettiva con gli spazi lontani dal centro storico e soprattutto con le periferie sembra segnare anche il lavoro di molti autori attivi su versanti differenti, in una forte linea di continuità (che unisce pittura, cinema e fotografia) che mostra molto bene come Pasolini sia non soltanto un riferimento etico e letterario, ma come costituisca anche e ancora un modello figurativo. Si potrebbe partire così simbolicamente da Caro Diario (1993), film in cui Nanni Moretti gira per la città in Vespa scoprendo le sue architetture periferiche, borghesi e popolari, visitando la Garbatella di Una vita violenta e rendendo omaggio allo stesso Pasolini con un lungo pellegrinaggio (accompagnato dalla musica di The Köln Concert) di Keith Jarrett) verso l’idroscalo di Ostia, il luogo della morte del poeta, “un viaggio nella propria riscoperta identità fino a condurre lo spettatore ad esplorare la provvisorietà estrema della città”. In questo contesto troviamo Giorgio Ortona, autore profondamente legato alla rappresentazione della periferia di Roma, delle zone narrate e filmate da Pasolini e Rossellini, delle cui metamorfosi il pittore è testimone attento, in opere dove la pittura si condensa in un nucleo antico di intonaco, di asfalto e di calore, e dove la città viene rivelata nel suo corpo vitale, nella sua essenza che la rende il centro e il terreno di scontro delle mutazioni della contemporaneità...
Parlare di Giorgio Ortona per me ha un significato particolare. Perché la sua pittura è il mio panorama quotidiano. E non a causa della sua vocazione romana; infatti, io vivo sì tra le mura della città eterna, ma in un quartiere che a Giorgio pittoricamente non interessa affatto. E’ che quando si entra nel mio appartamento c’è una sua gigantesca veduta che sta lì da quando ci abito io; è stata la prima cosa che abbiamo appeso in casa. Messa proprio sopra il divano a vegliare sulle nostre serate. E appena varchi la porta è la prima cosa che vedi: una periferia, la tangenziale, tutto un po’ grigio, anche il cielo. Posso dire che forse è la cosa che mi ritrovo davanti di più durante il giorno. Eppure, dopo tanti anni, ancora mi capita di osservarla, di soffermarmi su alcuni particolari: su quelle sommità dei palazzi in alto a sinistra, sulla curva della strada, su quel tetto di un deposito che lascia intravedere qualcosa, su un improvviso accendersi di giallo, su una lontananza che sembra proseguire all’infinito. Sto lì e guardo. Mi chiedo che ora è in questa tela e mi convinco sempre di più che sia l’alba. E mi piace. Prima di me Ortona si era soffermato proprio su quell’angolo, lo aveva scelto, elevato a soggetto pittorico. Perché lui guarda la città e la ritrae. Senza enfasi ma con una specie di orgoglio consapevole. La sua Roma non è monumentale e forse non è neanche bella. Però, grazie a lui lo diventa. Tutte quelle palazzine si trasformano sotto il suo sguardo in incastri meravigliosi. Allora capisci che niente deve essere pensato in un solo modo, che puoi cambiare il tuo punto di vista su un frammento di mondo se qualcuno te lo porge nella maniera opportuna, te lo offre alla giusta distanza. Ecco, Ortona questa inquadratura a ‘misura’ la conosce bene: scova terrazze, muri ciechi, finestre, interni di appartamenti, figure solitarie, tetti e ci mostra il nostro solito paesaggio urbano, periferico e anonimo, quello in cui corriamo tutti i giorni, come non l’avevamo mai visto. Ci sono persone sul pianerottolo, anziani affacciati alle finestre, la moglie con il volto cancellato, i guanti da giardino o da cucina bene in vista, le pantofole. Giorgio riesce a rendere l’eroismo del quotidiano, come solo certi registi sanno fare. Tu guardi, ma nello stesso tempo riesci a sentire gli odori, a cogliere il rumore di quello che hai davanti. Per me la sua pittura è molto cinematografica. Quando vedi la figura del padre che si ripete nello stesso quadro con poche variazioni, o quello zoom in quella via di uno dei tanti quartieri romani che appare affascinate proprio per la sua banalità, oppure quella gru intenta a muoversi sotto i tuoi occhi, è evidente che la sua pittura, lenta nell’esecuzione, dà, tuttavia, la sensazione del movimento. A volte anche della rapidità. Guardo la Figura all’Esquilino e mi sembra di corrergli davanti. Lui resta lì, aspetta qualcuno, ma io nel frattempo sono già lontana, magari sulla solita tangenziale a raggiungere un tetto da dove affacciarmi, come Sergio guarda Roma. Questo è un altro dipinto singolare perché Sergio non c’è: è un soggetto cancellato, come se veramente la sua esistenza avesse un senso soltanto per il fatto di trovarsi lì, su quella sommità a guardare la vera ispirazione di Ortona: la città. E Sidney, con la sua maglietta gialla che assiste con relativa indifferenza alla costruzione di un nuovo edificio fa riflettere sul fatto così singolare che si può trovare la bellezza, la forma, la suggestione dappertutto. Io se penso a un nuovo palazzo che viene su, mi atterrisco, poi guardo questo quadro esposto qui e mi sembra che le gru siano la rappresentazione visiva della vitalità. È solo una questione di cambiamento di prospettiva. Giorgio lo sa bene: basta saper valutare la distanza. Quando apre la sua finestra su questa variazione di grigi, gialli, rosa, azzurri (credo che il verde sia un colore quasi bandito dalla sua tavolozza), sull’equilibrio di pieni e vuoti, di luci e ombre, sa che questo immenso paesaggio che si trova davanti può trasformarsi in un piccolo frammento ed è così che lo acchiappa. La città lui la smembra in tanti pezzi che un giorno magari qualcuno si divertirà a rimettere insieme, come un gigantesco puzzle di cui ogni dipinto costituisce un tassello già compiuto. Ed è bello immaginare che tutto ciò che lo spazio urbano contiene, tutta quella vita, sia entrata in una piccola tavola, dalla pittura secca, ruvida, potente, compatta e intatta. E forse come succede ad Achab con Moby Dick, della Roma di Ortona si può dire che è “lei che insegue lui, non lui che insegue lei”. E, infatti quando va fuori, cerca sempre qualcosa di simile. Durante il suo “Viaggio in Sicilia” (il progetto di Nuvole e Planeta) è riuscito a farsi trovare anche tra le campagne da un frammento di metropoli. C’è qualcosa di lirico, di romantico in queste vedute in cui appare sempre il cielo, che cambia colore, timbro, forse suono. Netto e preciso come quello di una chitarra jazz. Ma questa metafora era facile, perché Giorgio la suona. Lui crede di avere una specie di doppia vita, un po’ schizoide: quella del pittore e quella del musicista. Ma la sua musica è la colonna sonora del film di questi quadri. È così evidente!
...Giorgio Ortona guarda alle zone urbane che connettono il centro alla periferia, indagando un limbo architettonico dove bellezza ed errore si confondono di continuo. La sua pittura è sporca e densa, sembra impastata con l’aria dei cantieri e la polvere del caos diurno. La stessa frontalità si rompe in un gioco di ripetizioni, salti prospettici, scarti dello sguardo figurativo. Il risultato è una panoramica dal sapore cinematografico e dalla carnosità quasi informale, frutto di un’elaborazione interiore della Roma moderna. Pigneto, San Lorenzo, Casilina, Prenestina, Esquilino… diversi quartieri ma anche palazzi e altri luoghi specifici, connotati da storie forti del tessuto urbano. Ortona, prediligendo scorci che ci distolgono dal pensiero didascalico della città, individua le coordinate che hanno un’incidenza sul proprio status interiore. Insiste sui luoghi che ogni giorno attraversa dalla casa (zona Piazza Vittorio) allo studio (zona Pigneto), lungo una direttrice ad alta concentrazione multiculturale. Gli stessi telai, strutturati sul retro come bancali da cantiere, rispecchiano la regia interiore di chi sente il rumore decoroso del quotidiano...
Il ritratto che Giorgio Ortona ha dedicato ad Emanuele Di Porto, con un tram alle spalle, ha per titolo un’intera didascalia: la diretta testimonianza in romanesco di colui che è sfuggito al rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943: «...e so arivato lì, a piazza Monte Savello, li c’ereno i tranve, so montato sul tranve e c’era quello che spezzava i bijetti, là, all’epoca. Jò detto guarda, so ebbreo e me stanno a cercà i tedeschi, questo me fa, mettete qua vicino a me. Poi a una cert’ora me dà pure ’n pezzo de pane. Due giorni so stato sul tranve, ho dormito sul tranve, e questi dell’atac m’hanno aiutato, se vede che se l'erano detti uno coll’altro, insomma, che io stavo là e giravo sempre co sto tranve qua: era ‘a circolare. Cosa pensavo? Pensavo a mia madre, il pensiero mio stava su mia madre, subito morta lì ai campi di concentramento...». Quel ragazzino, oggi quasi novantenne, per diversi giorni ha osservato con angoscia e disperazione la città dai finestrini di un tram, così per frammenti sconnessi, palazzi e strade sconosciute, da capolinea a capolinea. Poi ha trascorso qualche notte sulla torretta adibita alla riparazione degli archi della linea tranviaria, dentro il deposito dell’Atac in via Prenestina, là dove gli autisti lo avevano sistemato, magari con qualche coperta, per salvarlo dalla furia nazifascista. Sono qui seduta sul 14 semivuoto e cerco di ricostruire i pensieri di Emanuele, solo e al buio in quella torretta, dopo che la madre gli ha urlato «scappa, corri, va via!» dalla camionetta dei tedeschi in partenza con il suo carico umano. E mi ritrovo alla fermata sotto la Tangenziale est (Totem della pittura contemporanea) in via Prenestina, quasi all’altezza del deposito dell’Atac. Questo è un punto caldo della città, storicamente intendo. Qui vicino c‘è il Pigneto, c’è via Raimondo Montecuccoli dove Rossellini ha girato la scena madre di “Roma città aperta” con Anna Magnani, c’è il nuovo locale laccato e lustro di Necci, una volta il bar frequentato da Pasolini, magari durante i sopralluoghi con Fellini nelle vie limitrofe, via Fanfulla da Lodi o via Braccio da Montone...Qui c’è la casa dei miei genitori, a Piazzale Prenestino. Restano incisi nella memoria i cigolii notturni delle frenate, gli acuti ferrosi, i suoni striduli e amari del metallo che conciliavano il mio sonno. La casa dei miei, set di alcune scene del film di Mario Monicelli “Un borghese piccolo, piccolo” con Alberto Sordi. Qui ci sono le facciate rassegnate e annerite dei palazzi che nei quadri di Ortona diventano pasticche colorate dell’oro metafisico di Roma. Prima di essere offuscato dalla fuliggine. Pezzi di cielo, tracce colorate di un’infanzia depositata nei fondali della psiche in ognuno di noi, anche in coloro ai quali l’infanzia è stata negata. Per Ortona quel sole metafisico, o quella improbabile felicità anacronistica, è nelle matite colorate Giotto. La scatola da 6. Lui, profugo dalla Libia, non ha mai osato ambire a quella da 24, troppo costosa. Il cromatismo di questi quadri ha dentro qualcosa di quei colori. Tracce, linee, macchie, cancellature che smangiano i confini delle cose e sembrano dilagare sulla tela, pericolosamente. Una pittura che pare voler mappare tutto lo spazio percorribile della città seguendo i tragitti degli Autobus e dei Tram. Non solo spazio orizzontale ma anche verticale del tempo e della memoria, certi buchi neri che riesce a leggere solo chi sa decifrare muri, strade, intonaci e crepe, facciate o finestre come quelle della Prenestina dove non si vede mai nessuno affacciato. Eppure l’antico portale neoclassico di una villa ottocentesca dal quale si accede agli uffici grigi dell’Atac ci sussurra che tutto è effimero e transeunte. Come se nelle cose fosse innescato un moto di accelerazione, e allora ti convinci che conviene sistemarsi sul sedile di uno di quei tram vuoti dei quadri di Ortona e intercettare il paesaggio metropolitano distrattamente, a pezzi, in fuga da un finestrino. Perché tutto è in divenire, come suggeriscono questi quadri, anche i dati della nostra coscienza storica. Tutto è in bilico sul nulla. Apparizioni che stanno per svanire. Dunque oggi un artista non può che lavorare sul work in progress. Per tentativi, correzioni, sovrapposizioni, collage, cancellature, fotogrammi o citazioni. Opere aperte e in cammino, non solo nel colore che va sbiadendo, crescendo o dilagando, ma anche nei titoli stessi dei quadri: “Nuova mappa metropolitana I”, “Nuova mappa metropolitana II”, “Il cielo che serve” ... Le cose che hai visto non sono più le stesse di ieri o di qualche momento fa. Cambiano le coordinate psichiche e spirituali. Cambiano i colori atmosferici o i pezzi vivi del puzzle. Allora tutta la città che vortica, il suo magma, li puoi cogliere solo per un attimo, distrattamente, da un autobus in corsa. Un autobus rumoroso che quando frena ti scaraventa tra le braccia di un estraneo.
Giorgio Ortona attualizza il passato e, in questo modo, lo rende eterno. Raffigura i tram di oggi, che so, il 13, il 19, il 3 che attraversano in diagonale la città di Roma, ma li raffigura come un presente che è un passato.
Il linguaggio figurativo ha questo di buono, che forse è l'unico adatto a rappresentare la trascendenza del Passato, in quanto l’Assoluto ha la sua residenza nel Passato, soltanto lì le forme possono sostare in eterno, perché sono passate, perché il passato è l’intrascendibile, l’incondizionato, mentre il presente è la presentificazione e la convergenza di tutte le condizioni. Non è un caso che il linguaggio figurativo si manifesta attraverso i colori e le linee, perché abita una dimensione rigorosamente bidimensionale. Ciò soprattutto perché esso si esprime, mediante l’immagine, la quale si offre mediante l’obliterazione di tutti i passaggi proposizionali e propedeutici temporali e spaziali con i quali invece deve fare i conti il linguaggio umano. Nell’immagine figurativa incontriamo l’Assoluto, ciò che è stato e non è più, il mistero del tempo che si è raggelato. La pittura ad olio su tela e su tavola di Giorgio Ortona è la tecnica più idonea per raffigurare la perfetta simultaneità e coincidenza tra l’essere e il nulla, tra la storia e l’eterno, tra passato e presente, giacché non ci sarebbe passato se non vi fosse il presente e noi che lo abitiamo.
È per questo motivo che il linguaggio figurativo di Giorgio Ortona abita una ontologia debole o meta stabile, per via del fatto che anche noi posti nel Presente assoluto abitiamo una ontologia meta stabile, che è e non è, agganciati all’attimo che è la compresenza di essere e del nulla. Nei tram sulle rotaie e nei filobus allacciati al trolley, in quel colori sbiaditi e indeboliti noi abbiamo l’esatta riedificazione in immagine di un passato che si è indebolito ai nostri occhi; ma è la storia che si è indebolita ed è scaduta a storialità di avvenimenti e di cose appese al filo del nulla. La pittura di Ortona non può che prendere a prestito, diciamo così, dal passato questo darsi dell’essere stato perché il mondo nel frattempo si è indebolito ed i colori sono diventati slavati e sbiaditi e diffusi, disfatti proprio come i nostri ricordi che, progressivamente, nel corso del tempo perdono lo smalto dei colori e la vivacità delle cose.
Un tempo, durante gli anni cinquanta e sessanta, Roma era attraversata in lungo e in largo dalle circolari, verdi e rosse, che erano dei tram e i binari attraversavano la città in tutte le direzioni. Poi, qualcuno pensò bene di sostituire quei tram e quei filobus con moderni autobus a nafta. Quella città ormai non c’è più e può rivivere soltanto in filmati d’epoca o in queste tele di Ortona che interpretano e attualizzano con un linguaggio figurativo del presente un mondo intrascendibile chiuso nel cassetto del passato.
È che il linguaggio figurativo di Ortona non può utilizzare i colori da cartolina o televisivi di cui siamo invasi o il linguaggio della pittura bene educata attenta al bon ton del wishful thinking, Ortona non può non costruire quei colori e quelle linee se non mediante un’opera assidua di decostruzione e di rivisitazione del Passato in quanto passato e del Presente in quanto presente. Non c’è nessuna nostalgia in quei colori e in quelle linee, è una operazione ragguagliabile ad un espianto di organi da un morto ad un vivo, perché, è paradossale ma vero, soltanto ciò che è morto rigorosamente può dar vita ad un vivo non più vivente. Il pittore della nostra civiltà non può più adoperare i colori così come un pittore del Rinascimento li trovava già belli e posti, pronti all’uso, ma deve andarseli a costruire e reinventare in quanto ciò che è oggi pronto all’uso è ciò che è morto e sepolto. Non è soltanto un problema di ottica della modernità ma un problema del nostro tempo che vive in una ontologia meta stabile, che muta di continuo senza mai offrire ad un artista un momento di requie o di riposo al riparo dalla mutazione. E forse è proprio questa forsennata accelerazione della mutazione che ci rende manifesta la presenza del nulla nella nostra epoca di incessante mutazione delle forme e delle cose. Nello sbiadire dei colori e delle linee della pittura di Ortona noi possiamo intravvedere in filigrana la presenza costante del nulla che signoreggia e minaccia tutte le cose e noi stessi in ogni momento della nostra vita quotidiana e nella storialità del mondo post-storico. Qualcuno che non ricordo ha detto che «il passato è il lusso dei proprietari», al che mi viene da replicare che il presente è la povertà dei dispropriati, è la nostra condizione esistenziale che ci fa oscillare tra un lusso e una povertà, tra l’essere e il nulla.
Ha scritto Sartre: «Il nulla, se non è sostenuto dall'essere, svanisce in quanto nulla e noi ricadiamo nell'essere. Il nulla non si può annullare che sulla base dell'essere; se del nulla può essere dato, ciò non avviene né prima né dopo l'essere, né, in senso generale, al di fuori dell'essere, ma nel seno stesso dell'essere, nel suo nocciolo, come un verme».1
1 Jean-Paul Sarte, L'Être et le Néant 1943 - L’essere e il nulla, 1958, ora trad. it. di Giuseppe Del Bo, a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, Collezione La Cultura, Milano, Il Saggiatore, 2014, p. 134
...Gli artisti parlano. Gli scrittori parlano. La gente comune parla. Anche le opere parlano. Ciascuna a modo suo, racconta uno spicchio di quel pazzo pazzo universo che è la nostra (ir)realtà quotidiana. Ogni opera è una piccola voce che si aggiunge alle altre. Ogni opera, ogni scritto, ogni racconto, ogni quadro, ogni scultura concepita dalla privata ossessione di un artista ci aiuta a formarci un’idea del mondo. E’ un piccolo tassello con cui costruire il Grande Romanzo della nostra esistenza quotidiana. Vera o finta che sia… ...Giorgio Ortona s’è autoritratto senza faccia. Cosa nasconde, dietro quel volto cancellato? Voci. Supposizioni. Ipotesi. Sussurri. La nostra vita va avanti. Una voce tira l’altra. “Non fate pettegolezzi”, ha scritto Cesare Pavese nel biglietto lasciato nella camera d’hotel, subito prima di morire. Pettegolezzi? Noi? No, no, e quando mai? Per carità, e chi ci pensa!...
Giorgio Ortona è senz'altro un artista controcorrente; lo è perché solleva la spinosissima questione del "realismo". Il realismo era stato distrutto dalle avanguardie storiche e, successivamente, dalle neoavanguardie. Tutta l'arte contemporanea è arte dell'ermetico e dell'inusitato; questo è accaduto perché l'arte ha rifiutato, per se stessa, una funzione materna ed assertiva, una funzione tendente a ribadire, nel fruitore, il già noto, l'abitudine a prendere abitudini. Giorgio Ortona teme che però, abbandonato il realismo, ci si allontani anche dalla grande questione filosofica che al realismo è legata. E' dunque da un punto di vista metafisico (oltre che pittorico) che dobbiamo guardare al lavoro del nostro. Osserviamo i quadri su "Roma" (dal 94 al 96); l'ipotesi guida è quello della riconoscibilità; siamo così riportati al dato, ad un "factum" liberato dalle suggestioni magate dell'enigma. "L'infinito ed il trascendente escono del tutto sconfitti" dalla pittura di Ortona. "Finitismo" e "fenomenismo" sono i protagonisti indiscussi della ricerca dell'artista nato a Tripoli. L'arte, per lui, non è alla ricerca del noumeno che si staglia dietro le cose; le cose sono le cose, come dice Pessoa. I fenomeni rimandano ai fenomeni e questi esauriscono l'intero arco vitale dell'essere e del reale. Detto questo Ortona sottolinea potentemente un altro aspetto del realismo; accanto al naufragio del trascendente si staglia, conseguentemente, lo scacco di ogni forma di "nobilitazione". La pittura non guarda verso l'alto (qualsiasi esso sia), ma insegue il fenomeno sin dentro le strutture più infime della "deiezione". Di qui la serie dei "Sacchi" che celebra a piene mani i gradi più bassi dell'essere con voluta attenzione. Il nostro non intraprende le strade dell' Arte Povera; non opera il passaggio dal quadro all'oggetto. E' sempre alla pittura che rimane demandato il compito di trattare del fenomeno; ciò accade perché Giorgio Ortona vuole costringere la pittura, una volta dedita alle cose nobili e nobilissime, ad occuparsi di ciò che non viene invaso dalla luce trasfiguratrice dell'eidos. E' dunque Platone l'oggetto della polemica ortoniana; non si creda che si tratti di una posizione anacronistica. Il platonismo risorge continuamente dalle sue ceneri e pertanto si rende necessario al fenomenismo di affilare le armi in una lotta che durerà sicuramente finché il sole scalderà il pianeta terra e accompagnerà le azioni degli uomini.
PALERMO - Nel 1822 il pittore inglese John Constable dipinse centinaia di vedute del cielo, cercando di ritrarre le variazioni delle nuvole. Quei quadri costituiscono, ad oggi, la più profonda indagine sull'anatomia dell'aria, dove i cumuli delle nubi trasmettono con certezza plastica l'effimera condizione delle cose e degli uomini. Dal 1996, a Palermo, nel cuore del centro storico, proprio al fianco della cattedrale, negli spazi di Nuvole Incontri d'Arte in via Matteo Bonello 21, si cerca ancora la struttura della pittura, delle mutazioni della società e delle dimensioni del silenzio. Lo spazio crudo e raffinato della galleria delle Nuvole, nel decennale, dal 25 novembre al 16 dicembre, ospita la mostra di pittura di Giorgio Ortona intitolata a Roma. Ortona come Constable non sopporta i monumenti, proprio per il loro tentativo disperato di conservare la vita oltre il tempo umano, e si concentra, invece, sulla soglia della dissoluzione della metropoli urbana nel cielo. L'inglese del romanticismo guardava le nuvole, e nel ritrarle appuntava nel retro della pittura la posizione d'osservazione, l'orario e la direzione dello sguardo. Giorgio Ortona riporta l'indirizzo circoscrizionale del paesaggio ritratto, Flaminio, Nomentano, Grande Raccordo Anulare, cosìcché si possa rintracciare il luogo dello sfacelo. Le città offrono da secoli i soggetti agli autori, basti pensare a cosa fu San Pietroburgo per Dostoevskij oppure Los Angeles per Fante, Palermo per Sciascia, Milano per Buzzati e Catania per Battiato, ma Roma, infine, per Giorgio Ortona, è la vendetta della solitudine sull'arte. La periferia entra nelle stanze dei palazzoni di pessimo cemento e di pessimi arredi, cogliendo nella calura agostana uomini in canottiera e donne in camicioni, soli e sofferenti dei mali della città. La pittura e la poesia servono ad equilibrare la velocità del cinema e dei satelliti, rallentando la riflessione e svelando la struttura delle piccole cose semplici, ed anche a denunciare gli errori collettivi nel progettare l'ambiente. Questa volta la finzione della pittura è più onesta e precisa della verità degli urbanisti e dei politici impegnati, che volevano città giardino e che, con vergogna nostra, hanno creato luoghi come lo Zen ed il Corviale, Librino e Scampia, dove proprio non c'è tempo per il cielo e per le nuvole.
...Un pittore come Giorgio Ortona sembra riusare a tratti l'idea di paesaggio urbano come Sironi (o la periferia del Portonaccio di un Vespignani, le vedute romane di Mafai e Scipione, calde o infiammate, neoespressioniste), per restituire delle vedute dell'odierna Roma panoramiche e minuziose, luminose quanto desolate, infittite dal macerante traffico della metropoli, nella dinamica deriva della modernità... Una pittura che, per paradosso ribaltato, sembra nascere dove finisce la fotografia, metaforizzando la testimonianza perplessa e affascinata, lungimirante e stordita di quegli svincoli, quelle tangenziali, quei viadotti, quegli agglomerati, quei capannoni, quelle terrazze domestiche anonime eppure intimissime... Con lui, un'intera generazione di nuovi artisti pone la città come incubo primario, avvolgente e prospettico...
...Altrettanto figurativi ma stilisticamente opposti risultano invece i fogli di Giorgio Ortona, il quale fa uso programmatico di liscissimi cartoni e matite, perlopiù, dure e acuminate. Ciò gli consente diagnosi senza approssimazioni, ostinate, puntigliose, in cui l'indagine non sorvola su nessun elemento rilevato e offre possibilità a quel particolare che l'artista decide di raccontare senza volontà d'economia. Poi, delle stesure saltuarie di colore ad olio s'integrano in alcune aree delle figure disegnate e accorano l'esito espressivo delle immagini, scortandole, peraltro, al vago confine con la pittura...
Palazzi. Un volo radente sulla città che intrappola interi quartieri, stretti primi piani di un muro condominiale, la luce opaca che ingoia la Prenestina, il taglio prospettico di un edificio che irrompe invasivamente sulla tela: è l'apparizione di Roma nella pittura. La scelta di esporre una serie di quadri sul paesaggio urbano romano non è casuale in un artista che ha eletto la sua città come fonte inesauribile di "materiale" estetico. E poi la pittura, il senso del mestiere, la necessità e l'urgenza di recuperare e affermare il valore della pittura come mezzo moderno di ricerca e sperimentazione. "Sono convinto che dopo il duemila la pittura acquisterà sempre più senso come lavoro lento, come approfondito processo di conoscenza estetica di contro al mondo-fotocopia" afferma Ortona. La sua è una ricerca attenta che parte dallo scandaglio di zone romane e laziali recuperate al degrado attraverso la visione estetica. Solo costruzioni, un accavallarsi di palazzi che lasciano lo spazio ad altri palazzi, né macchine, né presenze umane; solo lo studio sulla forma, sulla luce, sul colore. Ricordo mattine luminose o pomeriggi a girare per strade alla ricerca di luoghi definitivi da regalare all'arte, era come se le visioni chiamassero: un palazzo isolato sulla Colombo (che ormai non esiste più, coperto dalla nascita dei condomini), prospettive geometriche su campi verdi con una luce felice che riusciva a riscaldare i residui tumorali di un orizzonte industriale. Una sorta di romanticismo freddo lo definisce Ortona, e passa a dipingere nature morte; sacchi di cemento. E come se a questa mancanza di pittura si sopperisse in modo energico ponendo pesantemente sulla tela il materiale da costruzione, la corposità, il dato fenomenico, la datità da cui riprendere il cammino nel segno di un radicale e originario mestiere. Nella qualità della materia pittorica.
...Una interessante scelta e? stata quella di Giorgio Ortona (foto 11) che, pur da ebreo, ha ritratto, per la no- stra mostra, un altro gruppo di perseguitati, quelli identificati con il triangolo nero: asociali, Sinti, Rom, quegli irregolari che rovinavano la perfezione della razza ariana, quegli individui e quelle etnie che crea- vano disordine sociale, i non inquadrabili, coloro che rischiano di far saltare la macchina del sistema...
...Se la pittura serve – anche – ad allenare lo sguardo, a formare il gusto, allora a Roma servono i pittori. Una città antica, piena, dove non si sa più da che parte girarsi, a volte drammaticamente divisa tra il bello dei monumenti e delle abitazioni borghesi e il discutibile, se non il brutto, delle zone ex industriali e popolari. I pittori possono aiutare a colmare questa spaccatura e portare l’osservatore a concentrare lo sguardo per una volta su qualcosa di diverso dalle solite vedute da cartolina. Lo fa Giorgio Ortona, classe 1960, ebreo tripolino a Roma dall’infanzia, allievo di Antonio López García che lo ha indicato perché partecipasse alla Biennale di Venezia nel 2011. Un pittore palazzinaro. “Dipingo le costruzioni degli anni 50 e 60, ma non sono un artista di denuncia. Altrimenti guarderei a Tor Bella Monaca o Corviale. Invece dipingo le palazzine che trovo belle, dal Tiburtino a quelle che si vedono dal parco di Monte Mario”. “Cemento romantico” è il titolo di un quadro, “Borgata Parioli” un altro. Umorismo yiddish, gli ha fatto notare qualcuno. Un rovesciamento paradossale di quel “Vietnam di Roma nord” maldestramente indicato da Pietro Castellitto. “Quanto si offendono ai Parioli per quel titolo! Io mi diverto, i titoli per me sono fondamentali, alcuni sono lunghi alla Wertmüller, altri li cambio nel tempo e faccio impazzire galleristi e collezionisti”. Ce n’è uno che sembra particolarmente spassoso, “Emanuele salvato dall’Atac”. “E invece questo è veritiero: Emanuele Di Porto riuscì a sfuggire ai rastrellamenti nazisti del 16 ottobre 1943 grazie alla solidarietà dei tranvieri romani che per due giorni lo nascosero, dodicenne, tra mezzi e depositi”. Così a 88 anni è finito ritratto accanto al tram, uno dei non così numerosi volti espressivi che si trovano sulle tele di Ortona: “La maggior parte delle facce che dipingo sono neutre, perché non sono quello che mi interessa”. Lui è un pittore scientifico, appassionato alle strutture, un architetto di formazione. A Roma c’è tanta architettura storica che può stimolare un pittore. “Ma ho evitato i monumenti finché non ho trovato una prospettiva nuova che facesse per me: dall’alto, con Google Maps. Allora ho dipinto anche il Colosseo”. O il Palazzetto dello sport, altro titolo geniale: “Coronavirus Flaminium”. “La forma è quella! L’ingegnere Pier Luigi Nervi era il massimo, per me”. Tradizione e innovazione, un solido bagaglio tecnico e un uso liberissimo della tecnologia per scovare punti di vista nuovi, anche in una città trita e ritrita come Roma. “E comunque non ho dipinto mai en plein air, ma sempre da foto che scatto. Non sono un naturalista, nemmeno un figurativo in realtà”. Questo perché le ampie porzioni di bianco o di colore che occupano parte dei suoi quadri “non sono meno importanti della palazzina, o dei personaggi che appaiono come il soggetto principale”. Non tagli selettivi, dunque, ma una libera composizione dove l’unica cosa che conta è lo sguardo complessivo dell’artista...
Quando sei arrivato in Italia? Sono arrivato a Roma nel giugno del 67, come la maggior parte degli ebrei italiani e libici. Mi racconti il tuo inserimento nella comunità italiana? Avevo 7 anni. Il mio ricordo più profondo è dato dalla difficoltà e dal disagio provati. Che intendi? Ero arrivato che avevo difficoltà a leggere l’ebraico, e credo che questo mi abbia condizionato, quasi emarginandomi. Insomma, è come se essere un ebreo di Tripoli mi abbia fatto vivere l’esperienza di un mio limite. Da piccolo percepii queste sensazioni in modo molto negativo. Mi sentivo considerato fuori, vivevo l’ambiente che mi circondava in modo estraneo. Tutto ciò veniva compensato dal mio nucleo familiare, che mi ha protetto, per tutta l'infanzia. Il nido della famiglia, dei miei genitori, ha in qualche modo attutito questa mia difficoltà di integrazione. Poi, parlando più avanti con altri ebrei tripolini, ho capito che c’era un altro problema. Quale? La comunità mi sembrava, crescendo, fosse divisa in categorie, o “caste”, come se gli ebrei romani fossero “più ebrei” degli altri, ossia di noi ebrei di Tripoli. A volte mi sentivo differente in quanto tripolino. Penso che in parecchi abbiamo vissuto quell’esperienza. Credo che la causa fosse che noi, provenienti da un crogiolo di culture più fluide, dentro una più netta e consolidata, come quella romana, trovassimo difficoltà a riconoscerci. E l’arte? Ti ha aiutato a superare questa fase? Quando hai capito che era la tua strada? Certamente. Di questa diversa sensibilità ne ho fatto un punto di forza. Ricordo di avere sempre avuto questa sensibilità. Già prima media arrivarono i primi riconoscimenti per il disegno, e la vincita di un viaggio in Israele. Mi sono sentito subito un artista: giocavo con i colori, assembravo le forme con il modellismo, sono cresciuto con i colori Giotto in casa, sono stati il segnale per me che quella sarebbe stata la mia strada: è uno dei ricordi più potenti dell’infanzia. Mi ricordo di quando per le strade comparvero le prime linee blu dei parcheggi a pagamento – erano gli anni 70 –, e la cosa colpì subito la mia immaginazione; oppure ricordo le luminarie di Tripoli, con le lampadine gialle, rosse, vedi e bianche, e che ho poi ho riprodotto fedelmente nel mio studio. Frequentai il liceo artistico, e lì maturai in pieno la mia dimensione artistica. Acquistai sicurezza e consapevolezza della mia identità di artista. Direi perciò che l’ambiente ebraico, ma soprattutto il mondo religioso, ma forse per mia incapacità, l'ho vissuto come un conflitto per la mia libera espressione estetica ed esistenziale. Hai dei maestri ai quali ti ispiri, o delle correnti in cui ti inserisci? Dipingo da oltre 40 anni. All’inizio fui influenzato da Antonio Lopez García, un artista figurativo aperto anche all’informale e al concettuale, uno dei più importanti della sua generazione, assieme a Lucien Freud. Lopez mi fece invitare alla biennale di Venezia, quella curata da Sgarbi, nella quale 200 artisti internazionali dovettero segnalare artisti italiani; bè, io fui l’unico pittore italiano indicato, e questo resta un mio vanto. Altri artisti per me importanti sono stati, anche se può sembrare strano, Jackson Pollock, e Duchamp, perchè hanno arricchito la mia pittura di una profonda ricerca conceuale e di pensiero. Quali sono le tue maggiori esposizioni? Dove si possono trovare oggi le tue opere? Sono presente in varie collezioni pubbliche e musei, tra i quali il Macro di Roma, la Fondazione Cavallini-Sgarbi a Ferrara, la Collezione Benetton, e il Nuseo Michetti per citarne alcune. Tra i vari storici e critici d'arte, cito Philippe Daverio, Vittorio Sgarbi, Edward Lucie.Smith, Lorenzo Canova. Ma ho anche collaborato anche con artisti come Pino Daniele o la Fender. Ho fatto antologiche, al MACRO di Roma con Simongini e al Festival dei Due Mondi di Spoleto con Gianluca Marziani e come ti ho detto alla Biennale di Venezia nel 2011, invitato sia al Padiglione Italia che quello della Repubblica Cubana. Esposto, sempre con Sgarbi a Palazzo Reale a Milano e con Luca Beatrice a Palazzo Reale di Torino. Molte delle tue opere hanno al centro il cambiamento urbanistico. Ne emerge anche una certa solitudine umana. Come leggi il cambiamento della società italiana di questi anni? Guarda, vengo spesso dalla critica letto come un’artista di denuncia sociale, cosa che assolutamente non credo essere il presupposto principale. Io faccio un lavoro estetico, mi interesso delle periferie della città semiperiferica (come analizzato da Marco di Capua), e non quelle più degradate. Ci sono opere di indubbia qualità del centro storico, ma che a me non interessano, mentre altre in periferia colgono la mia attenzione. È vero che rappresento la solitudine, ma con la S maiuscola. In architettura, spesso, la presenza umana è eliminata. A volte però inserisco mia moglie, come fosse l'unità di misura della composizione, come fosse una fettuccia metrica. Sei un ebreo credente? Sono agnostico; ritengo infatti che l’ateismo sia una forma di presunzione. Sono agnostico perché questo mi dà forza per costruire la mia individualità. Del resto, c’è sempre tempo per dare una risposta sulle domande fondamentali! Ma soprattutto, praticare la pittura come esercizio quotidiano, di concentrazione, è per me, la più alta forma di meditazione naturale dell'anima, anche se laica. Mi hai parlato delle difficoltà dell’inizio. E oggi? Qual è il tuo rapporto con la comunità romana e tripolina? Vivo un ebraismo tutto mio, laico. Mi sento molto ebreo quando vedo il Maccabi in Champion League e soprattutto la bandiera d’Israele, che ritengo una delle più belle al mondo. Quanto al resto, la mia famiglia era abbastanza osservante, sebbene tale fede non poggiasse su uno studio molo approfondito. Io invece ho sempre respinto la ritualistica, ma naturalmente apprezzo quei credenti che hanno un rapporto di autenticità con il divino. Unica strada che può portare ad una trasformazione del sè interiore. Della mia infanzia mi resta il bel ricordo del venerdì sera: era bellissimo l’incontro con la famiglia, con i miei cugini. Oggi mi sento più ebreo quando sono fuori dall’ambiente ebraico; ma all’interno del mio mondo di provenienza vivo una condizione di insoddisfazione, credo comune a tanti. Questa tua insoddisfazione ha anche a che fare con la tua identità di artista? Come sappiamo, l’ebraismo ha sempre avuto una certa diffidenza verso le arti figurative. Ti risponderò con le parole di Josef Brodsky, che quando gli veniva chiesto se si sentisse uno scrittore ebreo, rispondeva che lui si sentiva come prima condizione, quella di essere uomo, e che poi si accorgeva di essere ebreo dallo sguardo degli altri. Al Macro, per esempio, Gabriele Simongini si accorse, e mi fece comprendere, dell'importanza che io do ai titoli dei mie lavori, dove in questi colse a volte l’ironia yiddish. L’ultimo pezzo, ad esempio, si chiama “Ritratto triplo di un tripolino”: più yiddish di così si muore. E quindi anch'io rispondo come Brodsky. La mia individualità e la mia idea di estetica cerca di vincere continuamente il contorno del mondo in cui vivo. Sono contro l’imposizione di stilemi di vita. Però forse hai ragione, forse il fatto che esistano pochi artisti ebrei deriva proprio da questo, dal divieto di rappresentazione. Quanto a me, allora mi sento più vicino alla cultura occidentale: mi piace questo aspetto ludico, l’edonismo e il piacere e la coltivazione dello studio della forma. Al contrario, ho sempre visto l’ebraismo come una forma religiosa abbastanza faticosa per me, perchè il mio è un emperamento gioioso e giocoso, anche negli aspetti più seri della vita Come hai vissuto il lockdown? Fisicamente, non è cambiato molto, perché gli artisti devono vivere molte ore della giornata in assoluta solitudine, però ho scoperto una Roma che assomigliava a Berlino est prima della caduta del muro del 1989, una Roma meravigliosa e senza turisti. E poi la pandemia ha colpito la mia immaginazione. Ad esempio feci un disegno che rappresentava il palazzetto dello sport di Pierluigi Nervi al Flaminio, e che visto dall’alto sembrava un coronavirus. Progetti futuri? Preferisco mantenere un po’ di riserbo. Posso però dirti che sto lavorando su una tematica nuova, quella dei bagnanti in costume, con giochi d’acqua. Ho comunque diversi progetti in cantiere. Vedremo.
...Anche i paesaggi urbani di Giorgio Ortona sembrano negare la presenza umana: sono immagini, testimonianze, angolosi confini, descritti da un architetto che ha scelto un segno nervoso e un colore austero per esorcizzare il grido soffocato del mondo: Nelle sue spoglie periferie: innaturali sarcofaghi di cemento, un deserto artificiale, facciate remote come lapidi, Ortona vuole essere la coscienza di una superficie, scabra ed essenziale, che trascrive il vero dell’alienazione. Come un sismografo del moderno, la sua mano registra i movimenti dell’attualità – anche in gelidi interni, in cui la figura umana appare pietrificata dalla solitudine, dall’interrogazione, dal silenzio. Ma la sua mano non può che tracciare linee rette, orizzontali e verticali; non può che stendere un colore magro, schivo, graffiato, nella rarissima presenza di un segno curvo, un gesto ondulato, una presenza morbida e amica. Nella sua essenziale pittura, così tutto appare privo di qualcosa: rimane soltanto una sagoma, un’apparenza, un secco, trasparente guscio, svuotato dal midollo della vita...
Giorgio Ortona riafferma il paesaggio, l’en plein air ai tempi dell’abuso edilizio. Vedute urbane a volo d’uccello o da angolature inconsuete, costruite con cura e trasfigurate attraverso le sue istintive impressioni. L’artista contempla quei paesaggi, fino a sentirsi parte di essi, fino ad accettarli e amarli, nonostante tutto. Non cerca la bellezza, come non si sofferma sui dettagli; pochi, fondamentali e precisi elementi, su cui distende ampie e veloci campiture di colore o non-colore, per varcare la soglia dell’apparenza e trasmettere l’essenza di cio? che conosce. Dietro i volti non-finiti di salde figure, fra nature morte che paiono monumenti, dentro le palazzine fatiscenti di periferia, estranee e silenziose, c’e? la vita che scorre, storie ed emozioni da immaginare. Nato a Tripoli nel 1960, oggi vive e lavora a Roma. Dopo aver conseguito la laurea in Architettura presso l’Universita? di Roma, si e? trasferito a Cadice, in Spagna, per frequentare un corso internazionale di pittura, tenuto dal Maestro Antonio Lo?pez Garci?a. Ha esposto in numerose mostre, sia collettive sia personali, in Italia e all’estero, ricevendo plausi e riconoscimenti da critica e pubblico. Alcune sue opere sono in musei pubblici, come il Macro di Roma, e in importanti collezioni private, come la Fondazione Cavallini Sgarbi e la Collezione Becchetti.
...immagini del proprio presente, urbano e industriale, sono rese dalla pittura iperrealistica di Giorgio Ortona e da quella più rarefatta di Massimo Campi. Il primo attraverso i dettagli, superfici ben definite, colori netti e probabili apre su ampi panorami che si riferiscono a una cultura metropolitana e di forte comunicazione ma vista attraverso una lente che ne dia un viraggio raffinato e rigoroso; Campi restituisce la propria angolazione pittorica attraverso un processo di rarefazione, alleggerendo il rigore contaminandolo con impasti matrici che producono una visione incerta, non definita, sospesa, inquietante ed insieme accattivante, come strade isolate, periferie, garage, autostrade deserte, silos, auto in corsa, cieli e panorami polverosi eppure poetici; entrambe le visioni si fanno portatrici di quell’epica del quotidiano propria di molto cinema d’autore e di certa giovane narrativa della cosiddetta microquotidianità...
Le città “costruite” da Giorgio Ortona sono città assolutamente reali nel quale l’artista applica una sottrazione cromatica. I classici colori della città vengono alterati da una mancanza come a sottolineare l’assenza di qualcosa. Potrebbe essere la metafora di un ambiente deturpato e sacrificato all’edificazione senza sosta di centri urbani, porzioni di polmoni verdi che non esistono più. L’ambiente deturpato di uno spazio vitale essenziale, ma ritenuto superfluo e pertanto sacrificabile. Le visioni dall’alto mostrano come l’urbanizzazione ha cancellato le tracce della natura per un progresso che “uccide” l’ambiente.
A differenza di quello che ho sostenuto del legame tra uomo e paesaggio nelle opere degli artisti descritti, nelle architetture di Ortona invece la figura dell’individuo viene meno con una forte negazione della natura nello spazio circostante. Quella di Ortona è una vera e propria città contemporanea sollecitata da profondi cambiamenti culturali, una città che deve ancora ridefinire i propri confini, intesi come dispositivi fisici, politici e simbolici. Nelle sue opere che all’apparenza possono sembrare incomplete vien da una parte esaltato un mondo in fase di costruzione, dall’altro una città che rappresenta un mondo che si estende all’ infinito e dissemina impronte di una rinnovata urbanità. Infine posso concludere con il dire che tra le pieghe dominanti della città contemporanea sta crescendo un’altra visione della città, quella degli spazi intermedi. Spazi residuali, indecisi e inquieti che sono esplosi in una nuova realtà urbana, divenendone uno dei tratti caratteristici dell’artista Moderno.
Giorgio Ortona nasce nel 1960 in Libia, a Tripoli. Dopo essersi laureato in architettura a Roma, città nella quale vive e lavora, diventa un pittore figurativo e va a mettere a punto tecnica e stile in Spagna, presso l’Università di Ca- dice, sotto l’autorevole direzione di Antonio Lopez Garcia. Ortona è prima di tutto un pittore della luce. O meglio, di- pinge l’eccesso di luce e i suoi effetti sul paesaggio e gli individui che lo popolano. Non appena capiti di trovarsi di fronte a una sua opera, la prima impressione che se ne ricava è appunto quella di un biancore abbagliante, di un eccesso di luminosità quale conseguenza, si direbbe, di una sovraesposizione ai raggi solari. Da questo cando- re accecante, come se fuoriuscissero dal cuore incande- scente di una fiamma ossidrica, o se fossero le ultime im- magini incamerate dalla retina un attimo prima di perdere i sensi per una forte insolazione, poco alla volta emergono in superficie le figure. Binari morti e segmenti di rotaie, sopraelevate e incro- ci stradali, palazzi di quartieri-dormitorio in costruzione, interni spogli di appartamenti, corpi seminudi di uomini e donne che ci interrogano attoniti. Chi siamo? Perché siamo lì? Cosa siamo venuti a fare? Cosa vogliamo da loro? Siamo lì per disturbare? Ecco alcune delle domande che queste presenze spaesate e disarmate, a tratti ai limiti dell’evanescenza, sembrano rivolgerci. Subito ci rendia- mo conto di essere entrati in contatto con un ambiente marcatamente popolare, un luogo in cui vive il cosiddetto proletariato urbano (per usare una terminologia sociolo- gica di qualche decennio fa e forse oggi caduta in disuso ma che, ciononostante, rende ancora con chiarezza l’idea della categoria sociale alla quale facciamo riferimento in queste righe). Ci accorgiamo, insomma, di essere arrivati in periferia. Ma periferia è un termine generico, intrinsecamente ambi- guo e usato spesso in modo improprio. Qui si tratta piut- tosto di nuove isole suburbane, avulse da tutto ciò che sta loro intorno. Non-luoghi autoreferenziali che in qualche modo, nonostante le difficoltà del quotidiano e l’endemica iniquità sociale, sono riusciti a trovare in se stessi il pro- prio centro, il motivo per andare avanti e l’intima ragione di esistere. Come villaggi autonomi ai margini delle città, le nuove isole stilano il loro sistema di valori (invisibile ma riconosciuto), i loro codici e la carta dei diritti, pregano i loro santi e tifano i loro eroi. Restano fedeli a liturgie e ri- tuali di vita che la comunità nel suo insieme ha impiegato tempo e fatica a definire, e che adesso tutela e difende ad oltranza. Isola è quindi la parola giusta. E isolamento la parola-chiave per comprendere appieno le opere di Gior- gio Ortona. Nuove isole di ferro e cemento appena nate o che stanno per nascere da un giorno all’altro. Sebbene siano ancora infestate da gru, camion e cantieri, già presentano tut- ti i segni caratteristici della loro categoria. Sono remote, sperdute e sempre sul punto di svanire senza lasciare trac- cia, vorremmo dire, nonostante sia poco tempo che sono venute su. Non a caso Ortona le approccia partendo da lontano, dalla campagna incolta che le circonda e le se- para dalla città vera e propria. Poi, come in una sequenza cinematografica neorealista, si avvicina lentamente. E in silenzio, discreto e forse un po’ circospetto, penetra infi- ne al loro interno per conoscerne i segreti. Proprio come farebbe un gatto randagio che inceda cauto fra sacchi e calcinacci alla ricerca di una cucina e di qualcosa da met- tere sotto i denti. Ed ecco che senza accorgercene abbiamo appena tratteg- giato i lineamenti dell’artista. Notturno e silenzioso come un felino, immobile e concentrato, ci osserva con atten- zione e ci studia dall’interno austero del suo ambiente di lavoro. È bianco sul fondo nero delle imposte chiuse. Vuole tenere fuori la notte nera di periferia, o più semplicemente è giorno e cerca riparo dal sole cocente di mezza estate? Ci fa pensare a un donchisciottesco hidalgo contempora- neo, o a un’insolita miscela fra un uomo comune dedito al suo lavoro e un misterioso Rockabilly metropolitano dalla vita elettrica e imprevedibile. In un’altra immagine, infatti, lo vediamo nero in controluce su fondo bianco. Una dop- pia anima, dunque. Pulp e ordinaria, diurna e notturna, bianca e nera. La stanza in cui lo troviamo seduto è la stessa nella quale si muoveranno i soggetti dei suoi dipinti. Una stanza come centro di lavoro e centro del mondo. Una stanza-studio di registrazione e una stanza-laboratorio. Giorgio Ortona e i suoi personaggi si trovano dunque in una straniante con- dizione di sovrapposizione fra Arte e Realtà. Abitano lo stesso spazio, lo stesso ambiente di vita, come accade nelle opere del pittore olandese seicentesco Jan Verme- er. Una stanza vuota e disadorna, che tuttavia preserva la funzione fondamentale di separare l’interno dall’ester- no. Un esterno dal quale sia l’autore che i suoi personag- gi sembrano volersi proteggere. Un fuori percepito come estraneo e inospitale. Precario, difficile e potenzialmente violento, nel quale il pericolo più comune e sempre in ag- guato è quello di mancare a se stessi. In effetti queste figure sembrano essere sempre sul punto di smarrirsi, di perdere definitivamente la propria identità e il proprio ruolo all’interno della società. Immerse in un liquido amniotico che le avviluppa e le paralizza, imprigio- nate all’interno di un prisma di cristallo fatto di afa e calore, esse vengono colpite dalla luce inclemente di un rovente sole romano di metà luglio e, in una simbolica dissociazio- ne identitaria, si rifrangono otticamente. Diventano, cioè, il bersaglio umano di un fenomeno fisico che prende il nome di rifrazione ottica e dispersione luminosa. Alternati- ve sceniche a questo interno d’appartamento sono le sue immediate vicinanze. Un locale di servizio, un muro del cortile sottostante al quale gli operai hanno appoggiato i sacchi della calce e gli attrezzi da lavoro, un balcone con la sua ringhiera, un terrazzo affacciato sul nulla. Ma di questo nulla fatto di capannoni abbandonati, cam- pi assolati e sterpaglie bruciate sappiamo già qualcosa. In realtà lo conosciamo bene, ci è familiare. Senza troppi sforzi di memoria le note che ci sembra di sentir uscire dalla finestra aperta di uno di questi palazzi sono quelle di Adriano Celentano che nel 1966 raccontava la storia del Ragazzo della Via Gluck. O di Eros Ramazzotti che esat- tamente vent’anni dopo, nel 1986, cantava i suoi Nuovi Eroi abitanti ai margini delle periferie, dove anche i tram terminavano la loro corsa. Ora che siamo alle soglie del 2016 e altri trent’anni sono passati, Giorgio Ortona ci par- la attraverso la pittura di un fenomeno sociale che crede- vamo di esserci lasciato alle spalle e che invece vediamo nuovamente ripetersi sotto i nostri occhi. E lo fa per mez- zo di immagini ruvide e corrosive, caratterizzate da ac- cordi cromatici volutamente acidi e stridenti. È questo lo stile più adatto alla rappresentazione dell’’inurbamento di nuove classi sociali all’interno del tessuto cittadino pree- sistente, e della loro lotta quotidiana per la sopravvivenza e l’integrazione. Ascrivere i lavori di questo autore alla corrente artistica genericamente denominata Realismo, non è operazione ovvia come possa sembrare a un primo sguardo. Infatti il cosiddetto Realismo è per sua natura una corrente am- bigua e sfuggente, oltremodo estesa sia da un punto di vista geografico che temporale, e dunque difficile da defi- nire. Usare questo termine può non voler dire niente, tanto ineffabile è l’essenza stessa della sua natura. Non di rado sfocia naturalmente in una delle sue varie e ormai storiciz- zate declinazioni di genere, quali: Naturalismo, Verismo e Accademismo, Surrealismo e Metafisica, Realismo Magi- co e Realismo Esistenziale, Iperrealismo e Fotorealismo, Neorealismo e Realismo Socialista. Forse quest’ultima è la variante più accettabile e più vicina allo stile dell’Ortona per il quale, in verità, verrebbe voglia di ricorrere a defini- zioni sperimentali e trasversali come ad esempio, per ci- tarne alcune che potrebbero fare al caso nostro: Realismo Onirico o Realismo Informale, Realismo Sociale o Reali- smo Pulp. Lo stile di Giorgio Ortona si distingue per un’evidente com- ponente aspra, elettrica e graffiante, in certi frammenti ai limiti con la pittura astratta e informale. I colori sono acce- si, a volte acidi, il bianco incandescente e assoluto come la luce meridiana dell’estate mediterranea. Il nero, in alcu- ni casi prepotentemente fatto avanzare in primo piano, è il nero senza fondo del nulla e della disperazione che non conosce conforto. Una pittura, dunque, costruita su con- trasti fotocromatici e fatta di gesti carichi di energia, ag- gressivi, all’occasione persino impietosi e arrabbiati. Infine, Ortona non indulge mai alle lusinghe del Bello come categoria estetica edificante e selettiva, né a istanze pu- ramente pittoriche dell’Arte per l’Arte. Non ambisce a mostrare niente di più di quello che mostra perché sa, per esperienza e per istinto, che la Verità della condizione umana non chiede mai di essere filtrata. Né la Realtà ha bisogno di essere alterata o abbellita per rivelare la sua ragione d’essere più autentica e profonda, o per graffiare come farebbe un gatto randagio che si allontani guardin- go sui ponteggi di un cantiere romano.
Giorgio Ortona, ebreo di Libia, nato a Tripoli. Giorgio è un artista di fama internazionale e nel 2011 ha esposto le sue opere alla Biennale di Venezia. Attraverso la sua arte, ispirata a volte anche alla vita quotidiana, a Tripoli o alla sua famiglia, ai luoghi in cui ha vissuto, le piazze, i palazzi, mantiene viva questa Comunità. E fa sì che possa trasmettere la storia e quanto accadde durante la Guerra dei 6 Giorni. Giorgio elabora attraverso l’arte un ebraismo e una memoria viva, priva di retorica, là dove le scelte estetiche vivificano un mondo in parte scomparso e riproposto in dettagli minimalisti o nei ritratti familiari che restano a testimonianza indelebile. Questo è il grande valore della pittura: mantenere vivo il ricordo della presenza della Comunità ebraica in Libia. Tutta la sua famiglia, parenti, nonni, genitori e i due fratelli sono nati a Tripoli. Abitavano davanti all’Ambasciata italiana, in via Shara Huaran, in una piccola palazzina di due piani, con un terrazzo meraviglioso affacciato sul mare. Il famoso lido, bellissimo, dove loro, sei mesi all’anno, si recavano tutte le mattine. Al tempo del pogrom aveva circa 7 anni e frequentava la scuola italiana, aveva come amici solo coetanei italiani, non ricorda che né lui né la sua famiglia avessero particolari rapporti con la comunità araba. Rammentava solo che li chiamavano “arabetti”, presumendo che loro ci chiamassero “ebreucci”. Ad eccezione di suo padre che, essendo Direttore del Corriere di Tripoli, aveva anche rapporti di amicizia con i colleghi arabi, questo anche grazie alla sua mentalità aperta e “laica” che gli permetteva di guardare le persone nel loro valore al di là di nazionalità o religione. E con questo modo di essere aveva cresciuto anche i suoi figli, preferiva che essi interagissero con il mondo in maniera spontanea, senza sentire differenze di etnia o religione, e senza nutrire paure nei confronti di altre popolazioni, in questo caso degli arabi. Viveva la sua infanzia come tutti i bambini, in maniera abbastanza leggera, spensierata, un modo di fare che ha conservato anche nella sua adolescenza e in età matura. L’unica cosa che lo colpì, aprendo un’enciclopedia nuova di zecca, la notissima “Garzantina”, sfogliando la parte geografica alla lettera “I”, “Israele”, fu la geografica della nazione, completamente coperta di nero. Era stata cancellata, come se non esistesse. E rimase allibito nel vedere che su una enciclopedia qualcuno si fosse disturbato a rovinare la pagina, colorando di nero la cartina. Non ne comprendeva il motivo, ma poi non ci pensò più. Nella sua famiglia la vita scorreva normalmente, come in qualsiasi nucleo familiare ebraico tripolino. A casa sua c’era un modus vivendi un po’ particolare, in quanto suo padre era completamente laico, e lasciava tutti liberi di vivere come meglio credevano, mentre sua madre aveva un alto livello di osservanza delle tradizioni ebraico libiche, della liturgia, delle Mizvoth. I bambini, racconta, vivevano tutto ciò in una maniera un poco distaccata. Per loro quindi la parte ritualistica si trasformava in un momento gioioso, come quando il venerdì sera dello Shabbat tutta la famiglia si riuniva, parenti compresi, e quindi venivano i cuginetti, giocavano a pallone, si divertivano. Poi, se facevano danni, davano sempre la colpa a lui. C’era molta unione tra loro, venivano ospitati a loro volta anche nelle loro case fuori Tripoli, come quando andavano dalla zia Yvette a Malta. Il giorno che scoppiò la Guerra dei 6 Giorni come tutti dovettero chiudersi in casa, serrando porte e finestre. Per Giorgio non fu un momento traumatico, anzi quelle finestre chiuse gli fecero immaginare di essere in una capanna indiana. Durante quei giorni in cui rimasero chiusi a causa dei disordini, solo suo padre osava uscire per andare ad acquistare del pane e degli spaghetti Barilla (l’unica cosa che trovavano in giro, visto che gli arabi avevano incendiato tutti i negozi), che mangiavano al burro, o aglio, olio e peperoncino. Solo gli ultimi giorni la mangiarono scondita, perché erano finiti sia il burro che l’olio. Abitando di fronte all’Ambasciata, nella cui sede lavoravano alcune persone che lui conosceva, il padre chiese aiuto, per lasciare la Libia. La sera della partenza, erano circa le 21, sua madre gli stava facendo il bagnetto, quando entrò dicendo: “Presto, presto, scappiamo”. Quindi la mamma lo asciugò e lo vestì velocemente, e di corsa con una valigia e 20 sterline in tutto, le uniche cose consentite, scapparono al buio, salendo su una jeep dell’Ambasciata e andando all’aeroporto. Una volta arrivati lì, l’hostess fece notare che i posti riservati sull’aereo erano 4 mentre loro invece 5, e non era possibile imbarcarsi con una persona in più. Non c’era il posto, quindi uno di loro doveva rimanere. Il padre le disse “Allora rimango io!” e vista la grave situazione l’addetta all’aeroporto chiuse un occhio, e tutti si imbarcarono e atterrarono a Roma, a Fiumicino. Profughi senza possedere più nulla, sua madre chiese a una persona un gettone per telefonare e così poterono chiamare la zia Yvette, che li andò a prendere, e a lungo rimasero a casa sua. Non fu facile a Roma con un padre disoccupato, per 5 anni, e per questo sua madre, nel ’69, contro il volere del marito decise di ritornare in Libia, per vedere se poteva riavere qualcosa degli stipendi arretrati del marito, o altro che potesse riportare in Italia per andare avanti. Fu un viaggio inutile e rischiò molto per tornare a mani vuote. A Tripoli la sua infanzia era stata molto piacevole, aveva vissuto una vita serena e i suoi genitori cercarono di non enfatizzare in negativo le cose che succedevano, per non trasmettere ai loro figli la paura e i traumi delle vessazioni che gli ebrei avevano subito fino al 1967, tanto che anche il giorno dell’esodo lo visse come un gioco, una nuova avventura. Quella cioè salire su di un aereo per la prima volta, perché quando andavano a Malta dalla zia prendevano la nave. Ciò che ha vissuto durante il pogrom non lo ha mai raccontato a nessuno, anche perché ha sempre frequentato un ambiente non ebraico. Inoltre ogni volta che usciva il discorso sul conflitto religioso e politico ebraico-arabo, di certo Israele non ne usciva vittoriosa, anzi al contrario. Scoprendo che lui era un profugo ebreo tripolino, spesso era costretto a giustificarsi, perché i suoi interlocutori si permettevano di giudicare i fatti senza averli vissuti personalmente, e spesso quasi deridendo questa “sofferenza” subita dagli ebrei durante i pogrom. Non avendo subìto personalmente questo trauma, non se la sentiva ora più di tanto di contraddirli e buttarsi in un discorso articolato nel quale i suoi interlocutori, dall’alto del loro piedistallo, basato sul “sentito dire”, dalle opinioni filo/arabe a prescindere, che si ascoltavano in TV, capendo che avrebbe creato solo ulteriore astio, non una serena base di ragionamento. Sentendo questi discorsi fatti da persone dal loro divano di comodità, e che si permettevano di giudicare gli altri, senza aver provato loro quel tipo di esperienze, non riusciva a smentirli per evitare conflitti e preferiva parlare di altro. Anche perché in effetti lui non aveva sofferto. Anche se spesso, ricordando le vittime dei pogrom in Libia, in special modo quello del 1967, sapeva in cuor suo, sarebbero potuti essere proprio loro, i suoi genitori, i suoi nonni tra quelli uccisi. Ed invece erano stati fortunati ad avere salva la vita. Tra i detti ebraici ce n’è uno che dice di non giudicare mai il prossimo, se prima non hai vissuto le sue stesse esperienze , anche perché forse un giorno potrebbe accadere anche a te. Parole che dovrebbero essere ricordate da molti prima di sentenziare giudizi, senza avere alcuna esperienza. Egli è sereno in Italia, e non prova nessuna nostalgia di tornare a Tripoli, anzi il solo pensiero lo terrorizza. La Libia ha ispirato i suoi quadri, ha sempre usato i suoi ricordi della sua vita a Tripoli, e poi attraverso Google, guardando dal satellite Tripoli, in una sorta di viaggio virtuale, ritrasformandolo in ricordi profondi che esprime nei suoi dipinti. In Italia ha potuto studiare, laurearsi in architettura, e in Spagna pittura, e queste sue esperienze importanti di vita non le ha mai divise in due modi diversi di esprimersi e o di creare, ma le ha unite, in un’ unica visione, che utilizza sempre nelle sue opere. Certamente Giorgio ritiene che tutto ciò che fa parte della vita e della tradizione ebraica tripolina vada preservato come la liturgia, le tradizioni, le mizvoth, il cibo kosher. Ma, aggiunge, se dovesse tramandare lui queste tradizioni si annoierebbe moltissimo. Personalmente si è trovato sempre bene ovunque, soprattutto nella maturità, in qualsiasi luogo sia andato. Si è sempre integrato, ed è sempre stato in grado di ricostruire il proprio habitat dappertutto. Per quanto riguarda il lottare contro l’ingiustizia della confisca dei beni subita a Tripoli la vede una causa persa, perché purtroppo la mentalità del posto non cambierà mai, non ha fiducia in quel mondo e nei suoi governanti, anzi è convinto che sarebbe ora che i tripolini la smettessero di vivere nel passato, anche se tale ingiustizia non deve andare in prescrizione, non deve essere dimenticata. Tutti dovrebbero cercare di guardare avanti, cercando di vivere la propria vita dall’oggi. Se in futuro in Libia cambiassero mentalità, diventando più tolleranti e rispettosi del prossimo, forse si potrebbe trovare una via di dialogo per risarcimenti o riconoscimenti della presenza storica della comunità ebraico-libica. Per il resto la vita degli ebrei a Tripoli era invivibile, anzi molti sono grati per ciò che è successo, perché una volta usciti hanno compreso il significato della parola libertà, come ebrei e come esseri umani, liberi di fare tutto ciò che desiderassero fare. In Libia loro non sapevano cosa fosse la libertà, di certo nessuno adesso scambierebbe ciò che ha conquistato per rivivere in quel paese. Vista l’esperienza, rimarrebbero sempre con il timore, perché comunque non ci si potrebbe fidare di un governo libico. Se invece si potesse un giorno fare qualcosa per preservare i luoghi rimasti ancora in piedi come le due sinagoghe e due cimiteri sarebbe di buon auspicio. Ma, aggiunge, chi lo farà “visto che non c’è più nessuno, sono cose che ormai devono morire lì, non si possono portare via”. Certo sono testimonianze storiche della presenza millenaria degli ebrei, in Libia, ma visto che al momento è impossibile creare dei presupposti per attuare una salvaguardia di tali luoghi, sarebbe il caso di non pensarci troppo, e lasciare che si preservino da sole. Se in futuro si potesse fare qualcosa ben venga anche se la priorità, per lui, sarebbe quella di riportare in Italia le ossa dentro agli scatoloni messi in un magazzino a Bengasi, dopo che Gheddafi aveva fatto smantellare il Cimitero Monumentale ebraico per costruirci sopra una autostrada. Se un giorno in Libia dovesse cambiare la situazione politica, se gli ebrei potessero tornare, lui non tornerebbe di sicuro. Non prova nostalgia, anzi. Prova terrore al pensiero di tornarci. Egli non può dimenticare i video di qualche anno fa nei quali gli estremisti islamici sgozzavano tutte quelle persone vestite con la tuta arancione, e la spiaggia e il mare erano sporcati dal sangue delle vittime. Tripoli ormai nella sua mente si è trasformata in quel luogo orribile di morte e lui, ancora prima che succedessero quei fatti, queste cose le aveva sognate. Quindi cosa ci si può aspettare da persone che con tale ferocia hanno eseguito quelle decapitazioni… che diano il permesso di costruire un monumento in ricordo delle vittime dei Pogrom del 1945/48/67 e della Shoah? Poi siccome lui i monumenti in memoria li equipara alla ritualistica che non ama, ritiene anche del tutto inutile costruirli. Il ricordo si trasmette attraverso la parola, o attraverso altri mezzi, come ha fatto lui, usando la sua pittura, la sua arte per ricordare ciò che è stato, i suoi quadri girano per il mondo, come anche queste interviste, affinché tutti possano sapere la storia legata alle vicissitudini degli ebrei tripolini e di come si svolgeva la loro vita quotidiana. Secondo il suo parere, la cultura ebraico tripolina, espressa nella tradizione religiosa, e l’esperienza traumatica vissuta in Libia, non è sono troppo dissimili da altre culture che sono state a loro volta discriminate. Essa può solo raccontare ciò che ha vissuto e non insegnare ad altre culture, perché ognuno ha vissuto le proprie esperienze. E si impara dalle proprie esperienze vissute, non si possono “insegnare” agli altri, perché ognuno percorrendo la propria strada personale può trarne insegnamento. Per esempio se lui fosse rimasto in Libia, magari non avrebbe realizzato una vita piena come ha fatto in Italia, laureandosi in architettura, frequentando l’accademia d’arte e affermandosi nel mondo. Forse si sarebbe dedicato comunque all’arte ma sicuramente non avrebbe raggiunto il livello che ha raggiunto poi, non si sarebbe potuto formare. Giorgio essendo laico e non legato alla religiosità è sempre stato convinto che sia molto importante un buon rapporto tra esseri umani, privo di etichette. Non si sente di insegnare niente a nessuno, può solo trasmettere la sua di esperienza, le conclusioni alle quali è arrivato, e magari condividerle con altri. E se potesse lasciare un messaggio alle future generazioni direbbe di non rimpiangere mai il passato, anzi di essere grati anche delle cose negative, che permettono di poter ricominciare, creando magari cose più importanti di quelle che siamo costretti a lasciare. Ricominciare, e poter essere veramente se stessi, diventando altro, un’altra versione di se stessi, certamente migliore.
...all'alveare di Giorgio Ortona, architettura abbandonata e decontestualizzata, silenziosa presenza in quel buio espressivo del declino delle api, oggi a rischio d'estinzione, e dell'uomo stesso che ne è causa.